Ma quali saranno le voci della manovra?
La doppia sfida per il Paese
Il dovere del rigore, il coraggio delle riformedi Enrico Cisnetto - 25 maggio 2010
Oggi, finalmente, sapremo. Salvo colpi di scena, sempre possibili visti i tormenti della vigilia, alle 18 è convocato il consiglio di ministri con all’ordine del giorno “misure urgenti per la stabilità finanziaria e la competitività economica”. Sarà dunque varata quella manovra, a quanto pare da 24 miliardi, correttiva di un andamento dei conti pubblici che ci espone al rischio di un attacco speculativo ai nostri titoli di Stato e di pesanti sanzioni da parte dell’Europa, che pare essere una coperta corta: se accontenta i mercati penalizza gli italiani, o parte di essi, e viceversa se sarà “buonista” non convincerà gli investitori.
Con sullo sfondo l’attacco alla Grecia già portato a termine e nuove altre incursioni che, se hanno come vero obiettivo l’euro come è logico pensare, non potranno che riguardare Spagna e Italia.
Attacchi speculativi di cui si sono sentiti gli echi anche ieri, per fortuna ancora timidi, quando piazza Affari ha per l’ennesima volta vestito la maglia nera di peggior Borsa europea perdendo un ulteriore 2,6%. A questo si aggiunga che le premesse politiche del provvedimento non sono affatto rassicuranti, visto che le “manovre intorno alla manovra”, consumate fino all’ultimo, hanno badato più agli equilibri interni al governo e alla maggioranza – e persino dentro il Pdl, se è vero che per temperare il rigore di Tremonti si è persino tentato di ricostituire l’asse Berlusconi-Fini, fino a ieri considerato definitivamente morto – che al merito delle decisioni da prendere, e le relative responsabilità da assumersi davanti al Paese e all’Europa.
Dunque, quello che vedremo fra poche ore sarà un pacchetto di misure frutto di un compromesso, ma che ragionevolmente dovrà rivelarsi serio e rigoroso quanto basta per ottenere un via libera di Bruxelles che non potrà più essere di manica larga come nel passato, e soprattutto sufficientemente convincente da indurre i mercati ad accoglierlo in modo positivo, o quantomeno senza una punitiva ondate di vendite al ribasso di azioni e Btp.
Ma quali saranno esattamente le voci della manovra? Le indiscrezioni della vigilia, e di cui questo giornale offre ampia documentazione, parlano di interventi simbolicamente equitativi, tipo l’aumento delle aliquote fiscali sui bonus dei manager, o altrettanto simbolicamente punitivi della “casta”, come i rimborsi elettorali, ma anche di tagli robusti e di congelamenti degli automatismi agli stipendi dei dipendenti pubblici, di riduzione da quattro a una delle finestre di uscita dal lavoro verso la pensione, e di molte altre riduzioni di spesa pubblica.
D’altra parte, per arrivare a risparmi per quasi 50 mila miliardi di vecchie lire – ricordiamoci che la manovra salva-lira di Amato nel 1992 che arrivò ad un prelievo forzoso sui conti correnti fu di 90 mila miliardi – ce ne vogliono di sforbiciate. Ed è bene che sul tavolo non ci siano né qualunque tipo di condono, né un qualche aumento della già fin troppo alta pressione fiscale, né infine – speriamolo – non venga calcolata con facile abbondanza un recupero di evasione fiscale e di altro tipo di abusi (si parla molto dell’esplosione del costo delle pensioni di invalidità, aumentato nell’ultimo decennio da 6 a 16 miliardi) che poi si rivelerebbe fallace a posteriori.
E questo non perché non debbano essere intensificati i controlli, anzi, ma perché sarebbe bene che una volta per tutte, e tutti in Europa, usassimo queste voci di bilanci solo a consuntivo. Tuttavia, sospendiamo il giudizio sui singoli provvedimenti fino a quando non ne conosceremo i dettagli definitivi. Quello che qui importa è ricordare al governo, e a noi stessi, il senso complessivo che dovrebbe avere la manovra.
Primo: dovrà contribuire a salvare l’Italia, e con essa l’euro e l’intera Eurolandia, e su obiettivi come questi non si possono fare giochini politici da irresponsabili né si deve temere l’impopolarità. La quale, semmai, deriva dall’aver taciuto la verità dei fatti per troppo tempo. Secondo: per essere efficace, la manovra deve dare risposte strutturali ai problemi dell’economia italiana e della finanza pubblica.
Quindi dovrà essere senza sconti per nessuno ma non recessiva, perché colpire i consumi in questo momento significa tappare una falla (il deficit corrente) e aprirne un’altra (il pil che non cresce), e capace di coniugare l’obiettivo momentaneo con uno più di fondo (per esempio, intervenire sulla previdenza significa stipulare un patto tra generazioni, cosa che dovremmo fare comunque, a prescindere dal taglio dei costi).
Terzo: per evitare un intervento che magari lì per lì è efficace ma col tempo rischia di rivelarsi insufficiente, è bene impostare fin da ora alcuni interventi più strutturali aggiuntivi. In particolare, sull’aumento dell’età pensionabile e su una revisione radicale del trasferimento alle Regioni del servizio sanitario nazionale, è inutile aspettare che qualcuno ci chiami – come ieri hanno fatto con severità Ue e Fondo Monetario con la Grecia, considerato che sulle pensioni Atene ha preso provvedimenti non più tardi di due settimane fa – per imporci ciò che da soli non abbiamo il coraggio di fare.
E così, a maggior ragione, vale per il costo dell’impianto istituzionale, il cui smagrimento avrebbe peraltro il plauso della grandissima parte degli italiani. Dunque, s’imponga alla Lega di accettare l’abolizione delle Province (oltre 17 miliardi il loro costo), la riduzione a metà dei numero dei Comuni (su 8.100 ben 5.700, cioè il 70%, sono sotto i 5 mila abitanti), l’accorpamento delle Regioni più piccole a quelle più grandi, la cancellazione di inutili comunità montane, enti di bacino e tanti altri livelli di terzo e quarto grado. Infine, si faccia un progetto per una riduzione una-tantum del debito attraverso la valorizzazione del patrimonio demaniale, immobiliare e mobiliare pubblico attraverso la creazione di una società contenitore da quotare in Borsa. Si dirà: non c’è tempo per mettere in campo misure così complesse. Vero.
Ma, a parte il fatto che nel primo biennio di questa legislatura il tempo ci sarebbe stato se solo ci si fosse dimenticati un po’ delle due campagne elettorali (europee e regionali) che l’hanno attraversato, ora comunque si potrebbe accompagnare la manovra più congiunturale con un impegno politico solenne a mettere subito mano alle riforme più strutturali. Non fosse altro per evitare di passare da una manovra correttiva ad un’altra. Anche perché i mercati non ce lo concederebbero.
Con sullo sfondo l’attacco alla Grecia già portato a termine e nuove altre incursioni che, se hanno come vero obiettivo l’euro come è logico pensare, non potranno che riguardare Spagna e Italia.
Attacchi speculativi di cui si sono sentiti gli echi anche ieri, per fortuna ancora timidi, quando piazza Affari ha per l’ennesima volta vestito la maglia nera di peggior Borsa europea perdendo un ulteriore 2,6%. A questo si aggiunga che le premesse politiche del provvedimento non sono affatto rassicuranti, visto che le “manovre intorno alla manovra”, consumate fino all’ultimo, hanno badato più agli equilibri interni al governo e alla maggioranza – e persino dentro il Pdl, se è vero che per temperare il rigore di Tremonti si è persino tentato di ricostituire l’asse Berlusconi-Fini, fino a ieri considerato definitivamente morto – che al merito delle decisioni da prendere, e le relative responsabilità da assumersi davanti al Paese e all’Europa.
Dunque, quello che vedremo fra poche ore sarà un pacchetto di misure frutto di un compromesso, ma che ragionevolmente dovrà rivelarsi serio e rigoroso quanto basta per ottenere un via libera di Bruxelles che non potrà più essere di manica larga come nel passato, e soprattutto sufficientemente convincente da indurre i mercati ad accoglierlo in modo positivo, o quantomeno senza una punitiva ondate di vendite al ribasso di azioni e Btp.
Ma quali saranno esattamente le voci della manovra? Le indiscrezioni della vigilia, e di cui questo giornale offre ampia documentazione, parlano di interventi simbolicamente equitativi, tipo l’aumento delle aliquote fiscali sui bonus dei manager, o altrettanto simbolicamente punitivi della “casta”, come i rimborsi elettorali, ma anche di tagli robusti e di congelamenti degli automatismi agli stipendi dei dipendenti pubblici, di riduzione da quattro a una delle finestre di uscita dal lavoro verso la pensione, e di molte altre riduzioni di spesa pubblica.
D’altra parte, per arrivare a risparmi per quasi 50 mila miliardi di vecchie lire – ricordiamoci che la manovra salva-lira di Amato nel 1992 che arrivò ad un prelievo forzoso sui conti correnti fu di 90 mila miliardi – ce ne vogliono di sforbiciate. Ed è bene che sul tavolo non ci siano né qualunque tipo di condono, né un qualche aumento della già fin troppo alta pressione fiscale, né infine – speriamolo – non venga calcolata con facile abbondanza un recupero di evasione fiscale e di altro tipo di abusi (si parla molto dell’esplosione del costo delle pensioni di invalidità, aumentato nell’ultimo decennio da 6 a 16 miliardi) che poi si rivelerebbe fallace a posteriori.
E questo non perché non debbano essere intensificati i controlli, anzi, ma perché sarebbe bene che una volta per tutte, e tutti in Europa, usassimo queste voci di bilanci solo a consuntivo. Tuttavia, sospendiamo il giudizio sui singoli provvedimenti fino a quando non ne conosceremo i dettagli definitivi. Quello che qui importa è ricordare al governo, e a noi stessi, il senso complessivo che dovrebbe avere la manovra.
Primo: dovrà contribuire a salvare l’Italia, e con essa l’euro e l’intera Eurolandia, e su obiettivi come questi non si possono fare giochini politici da irresponsabili né si deve temere l’impopolarità. La quale, semmai, deriva dall’aver taciuto la verità dei fatti per troppo tempo. Secondo: per essere efficace, la manovra deve dare risposte strutturali ai problemi dell’economia italiana e della finanza pubblica.
Quindi dovrà essere senza sconti per nessuno ma non recessiva, perché colpire i consumi in questo momento significa tappare una falla (il deficit corrente) e aprirne un’altra (il pil che non cresce), e capace di coniugare l’obiettivo momentaneo con uno più di fondo (per esempio, intervenire sulla previdenza significa stipulare un patto tra generazioni, cosa che dovremmo fare comunque, a prescindere dal taglio dei costi).
Terzo: per evitare un intervento che magari lì per lì è efficace ma col tempo rischia di rivelarsi insufficiente, è bene impostare fin da ora alcuni interventi più strutturali aggiuntivi. In particolare, sull’aumento dell’età pensionabile e su una revisione radicale del trasferimento alle Regioni del servizio sanitario nazionale, è inutile aspettare che qualcuno ci chiami – come ieri hanno fatto con severità Ue e Fondo Monetario con la Grecia, considerato che sulle pensioni Atene ha preso provvedimenti non più tardi di due settimane fa – per imporci ciò che da soli non abbiamo il coraggio di fare.
E così, a maggior ragione, vale per il costo dell’impianto istituzionale, il cui smagrimento avrebbe peraltro il plauso della grandissima parte degli italiani. Dunque, s’imponga alla Lega di accettare l’abolizione delle Province (oltre 17 miliardi il loro costo), la riduzione a metà dei numero dei Comuni (su 8.100 ben 5.700, cioè il 70%, sono sotto i 5 mila abitanti), l’accorpamento delle Regioni più piccole a quelle più grandi, la cancellazione di inutili comunità montane, enti di bacino e tanti altri livelli di terzo e quarto grado. Infine, si faccia un progetto per una riduzione una-tantum del debito attraverso la valorizzazione del patrimonio demaniale, immobiliare e mobiliare pubblico attraverso la creazione di una società contenitore da quotare in Borsa. Si dirà: non c’è tempo per mettere in campo misure così complesse. Vero.
Ma, a parte il fatto che nel primo biennio di questa legislatura il tempo ci sarebbe stato se solo ci si fosse dimenticati un po’ delle due campagne elettorali (europee e regionali) che l’hanno attraversato, ora comunque si potrebbe accompagnare la manovra più congiunturale con un impegno politico solenne a mettere subito mano alle riforme più strutturali. Non fosse altro per evitare di passare da una manovra correttiva ad un’altra. Anche perché i mercati non ce lo concederebbero.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.