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Confindustria e Telecom

La crisi e le colpe del nostro capitalismo

Un capitalismo italiano arretrato a cui servirebbe un effettivo "patto dei produttori". Ma poi, sulle telecomunicazione, apriamo ai cinesi

di Enrico Cisnetto - 15 aprile 2013

Sono scettico, ma può darsi che il “patto dei produttori” che ieri Squinzi, Bonanni e Camusso hanno evocato ma non firmato, si faccia. E in tutti i casi, va dato merito alla Confindustria di averci provato, di aver elaborato una “terapia d’urto” per tornare a crescere di cui il governo prossimo venturo (se e quando ci sarà, e se durerà almeno un po’) non potrà fare a meno di tener in debito conto.

Ma è inutile farsi illusioni – e ieri gli imprenditori presenti a Torino, a dir poco disillusi, ne hanno dato ampia prova – perché per rimuovere il combinato disposto tra la mancanza assoluta di investimenti (anzi, prevalgono i disinvestimenti) e la totale assenza di indirizzi di politica industriale, ci vorranno anni. Un tempo che, purtroppo, non abbiamo a disposizione. La verità, poi, è anche un’altra, ed è bene che ce la diciamo fuori dai denti: quelle 70 mila imprese manifatturiere e le altre decine di migliaia di società di servizi che in questi anni di recessione hanno chiuso i battenti non sono state sconfitte solo dalla crisi, ma anche dalla propria arretratezza (gestionale, di prodotto, di mercato, ecc.). Il capitalismo italiano, fatto di piccole imprese famigliari scarsamente capitalizzate e managerializzate quando invece la globalizzazione impone paradigmi opposti, era già in crisi da ben prima che nel 2008 ci venisse addosso uno tsunami che quando saremo a fine 2013 ci avrà mangiato quasi il 30% della capacità produttiva e bruciato oltre 9 punti di pil (pari a 150 miliardi di ricchezza andata in fumo). Dunque, la nostra economia assomiglia sempre di più ad una vecchia auto cui dobbiamo rifare buona parte del motore, oltre che metterle dentro benzina.

Per questo, suggerisco cautela nel giudicare negativamente, come ho visto fare con qualche riflesso condizionato di troppo, l’operazione Telecom-Hutchison che si sta profilando. Lo dice uno che ha sempre difeso il valore dell’italianità della proprietà delle imprese – vedo che a criticarla oggi sono gli stessi che ieri teorizzavano il contrario – e che nello specifico ha speso più di una parola contro l’accumulo di debito in capo alla Telecom “privatizzata”. Ora si dice: occhio, che i cinesi ce la portano via, e per di più per un piatto di lenticchie se prima cedono a caro prezzo H3G alla stessa Telecom. Certo, è un pericolo reale questo, anche se è decisamente attenuato dal fatto che la rete verrebbe preventivamente ceduta a Cdp (speriamo che non si scateni il solito piagnisteo liberista). Ma provate a considerare la cosa inquadrata nel contesto di crisi strutturale, e per alcuni versi irreversibile, del capitalismo nostrano, e vedrete che, sulla base dell’assunto che tutto è relativo, il giudizio cambia radicalmente.

Telecom, pur essendo ben gestita, non è più quella di un tempo, ha bisogno di togliersi di dosso il macigno del debito e ha un socio di maggioranza relativa, Telco, che ha almeno tre azionisti (Generali, Intesa, Mediobanca) su quattro (Telefonica) che non solo vogliono ma debbono uscire. Inoltre, per il bene del Paese e lo sviluppo del mercato delle tlc (che richiede una modernizzazione assoluta), la rete deve tornare pubblica e resa più aperta. E chi può fare tutto questo? C’è forse qualche italiano in grado e disposto a giocare questa partita? E quando ce n’è stato uno, Tronchetti, non si è forse tentato di massacrarlo? Dunque, passatoia rossa per i cinesi. E amen

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