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Incertezza governativa

La condotta del rinvio

Lasciando passare le settimane il governo Letta s’indebolisce. Rinviare significa rinunciare. Il rischio è che ciò avvenga anche sul terreno istituzionale ed elettorale.

di Davide Giacalone - 22 maggio 2013

Dopo aver palleggiato con l’Imu ora che si fa, si passa all’Iva? Eppure non ci vuole uno stratega per capire che il governo Letta avrebbe il potere di decidere, se solo sapesse cosa decidere. E non ci vuole un professore d’economia (il cielo ci salvi) per capire che il peggiore veleno è l’incertezza: meglio sapere quanto devo pagare oggi e quanto mi farai pagare meno domani, piuttosto che vedere slittare un pagamento oggi e avvertire la sgradevole sensazione che si ripresenterà maggiorato e travestito.

Una volta rinviare un problema era considerato disdicevole. Ora non solo se ne vantano e se ne litigano il merito. La vicenda dell’Imu è esemplare: la distanza fra i due schieramenti è meramente declamatoria, a saper far di conto il punto d’equilibrio si trova in mezza giornata, eppure sono solo riusciti a decidere di non decidere, o, meglio, di decidere durante l’estate. Né si tratta di condotta limitata all’imposizione sulla casa: cos’è il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga se non il rinvio di qualsiasi decisione sugli ammortizzatori sociali e la regolazione del mercato? Cosa la proroga dei contratti precari nella pubblica amministrazione, se non il finanziamento di una non decisione? Così altri soldi andranno a finanziare il non lavoro e la non produzione, che è l’esatto contrario di quel che serve all’Italia. E’ la strada sbagliata. Lasciando passare le settimane il governo Letta s’indebolisce, si mangia il tempo della propria forza e accorcia quello che lo divide dalla fine. Rinviare, in queste condizioni, significa rinunciare. Il che c’è il rischio avvenga anche sul terreno istituzionale ed elettorale.

Il rinvio delle legge elettorale alla Corte costituzionale è stato la dimostrazione che gli studi di diritto si fanno solo agli internazionali di tennis. Molti giornali, specie quelli che se la tirano in quanto a serietà e ponderazione, hanno titolato: “la cassazione boccia il procellum”. Quella legge merita d’essere presa a pedate, come sostenemmo mentre sia il Pdl che il Pd se la tenevano stretta, ma i bocciati dovrebbero essere quelli che nulla sanno del procedimento di costituzionalità. La cassazione non può bocciare un bel nulla, semmai passa il quesito alla consulta. Dove si creano due problemi, enormi.

Il primo consiste nel fatto che se si ammette il ricorso diretto alla Corte costituzionale, non per fondati dubbi relativi alla legittimità di leggi rilevanti in specifici provvedimenti in corso, ma concernenti una più generale lesione dei diritti costituzionali del cittadino, si apre un varco capace di travolgere la Corte. Ci sono principi, come quelli relativi alla salute o all’ambiente, in base ai quali ciascuno potrebbe chiedere il giudizio costituzionale su qualsiasi legge. Un vulcano di caos.

Il secondo problema è che il presidente della Corte ebbe la non brillante idea di anticipare il suo giudizio, non richiesto in alcun procedimento, circa l’incostituzionalità della legge elettorale, salvo il fatto che un ricorso specifico si può prestare, sulla base di tale presupposto, solo a due esiti: a. accoglimento totale, nel qual caso si cancellerebbe la legge e si tornerebbe alla precedente, cosa che è stata esclusa in numerose sentenze della Corte stessa; b. accoglimento parziale, vale a dire cancellazione del premio, così si trona al sistema proporzionale, anzi più proporzionale di quello vigente fino alle elezioni del 1992. In tutti e due i casi sarebbe la Corte a fare la nuova legge. Il che risolverebbe il dilemma grillino su quanto guadagnano i parlamentari, o quello relativo al loro equo numero, rendendo possibile licenziarli tutti e chiudere il Parlamento.

L’effetto reale della decisione presa in cassazione, pertanto, è assai diverso da quel che si crede: chi voleva riformare la legge (tutti, a chiacchiere) ora deve correre, per salvare se stesso ma anche la consulta; chi voleva conservarla (quasi tutti, nella sostanza) ora può mettersi comodo e sostenere che si deve attendere l’alto pronunciamento, puntando sulla non ammissibilità, fra qualche mese. Può servire ad accelerare, ma in questo caso si deve accettare che si parli subito soltanto del sistema elettorale, senza portarsi dietro il caravanserraglio improcedibile della convenzione per le riforme costituzionali. Ma può servire anche a rallentare, essendo sufficiente, in questo caso, rimandare. La seconda posizione è certo poco nobile e tendenzialmente indifendibile, ma, come avvertivo all’inizio, sembra essere la filosofia scelta dal governo. Il resto son parole buttate lì a vanvera.

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