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Appunti sulla riforma costituzionale

La Carta non è strumento di guerra

Perché la politica torni a essere veicolo di educazione dei cittadini alla partecipazione

di Alessandro Diotallevi - 23 giugno 2006

Interroghiamoci, anzi, continuiamo ad interrogarci sui molteplici significati delle Costituzioni. E scegliamone emblematicamente uno.
La Costituzione è al contempo diritto e strumento dell’integrazione sociale, economica e politica dei cittadini, in un quadro di compatibile, equilibrato contemperamento di interessi.
Dalle Costituzioni deriviamo il sentimento della cittadinanza, il senso della comunità, la coscienza di un’eredità storica comune, di strumenti condivisi di vita collettiva.
Interroghiamoci: all’indomani delle riforme costituzionali che formano oggetto della prossima consultazione referendaria, potremmo ancora affermare e credere che la Costituzione italiana sia garanzia di equilibri complessi e fonte rinnovata di diritti? Potremmo esser certi che essa non tracci un solco – mediante la posizione di regole di rango superiore – tra cittadini ammessi alla detenzione dei poteri e non-cittadini sprovvisti di vie di accesso democratico alla presentazione dei propri interessi?
Se il punto centrale di un sistema democratico è la fiducia, il tragico connubio della prospettata riforma costituzionale e della realizzata riforma elettorale soddisfa ancora il presupposto di ogni ordinamento democratico secondo il quale si deve essere d’accordo sui vincoli costituzionali che sovrintendono ai processi di aggregazione?
Manca una check-list per la verifica della costituzionalità delle costituzioni. Forse, arriviamo a dire, non ce ne deve essere una soltanto. Ma è certo che ogni Costituzione deve superare un esame originario primigenio in ogni comunità: quello della condivisione del Paese, fissato da una soglia implicita di accettabilità, che non implichi, né direttamente né indirettamente, alcuna componente di relativismo morale e politico.
Nella riforma della Costituzione di un sistema politico basato sull’integrazione non debbono valere patteggiamenti o scambi di stampo coalizionale che risultino contrari alla giustizia – forse e meglio – alla giustezza del processo politico democratico che le deve generare. La Costituzione, figlia del genio italiano della combinazione, come affermato da Salverini, flessibile e tollerante, non può trasformarsi in uno strumento di guerra con avversari preordinati: il Parlamento, la legge, la solidarietà, la nazionalità.
Provando a razionalizzare il fastidio che in molti si prova quando si assiste alla illustrazione delle ragioni della riforma costituzionale beninteso (davanti ad un televisore, eccellente corresponsabile della crisi di partecipazione) esso consiste principalmente nel fatto che non si registra, oggettivamente, nel Paese alcun vasto consenso politico e popolare per una trasformazione che, al contrario, lo presuppone come necessario.
Per fortuna il Costituente repubblicano, flessibile e tollerante, ha circondato il 138 di molte cautele, sicchè, alla fine spetta al popolo di decidere. Ma non poteva il Costituente supporre che, dopo poche decine di anni, alcune forze politiche, forti del monopolio dell’informazione, avrebbero giocato una partita di potere sugli istituti della democrazia. Se è vero, infatti, che abbiamo il referendum confermativo, come mezzo di difesa, non possiamo tacere sulla sua natura di exstrema ratio.
In realtà, ci si aspetta, da un Parlamento democratico, che una riforma costituzionale che non raggiunga i due terzi venga messa da parte e ripensata, soprattutto se quel Parlamento è figlio di un sistema elettorale maggioritario.
Si vuole, in democrazia, sistema nel quale il confronto politico sulle forme istituzionali costituisce il pilastro della competizione, che per principi costituzionali s’intendono, da parte di tutti gli attori, quelli non soggetti alla determinazione politica di una maggioranza ordinaria.
Quando, per fisiologiche ragioni legate all’evoluzione dei sistemi, si deve porre mano alla riforma di un principio costituzionale, si richiede un consenso che supera sensibilmente quello necessario a vincere le elezioni e a governare: si richiede l’accettazione di vincoli costituzionali espliciti ed impliciti nella configurazione delle regole istituzionali.
Si tratta di un prius logico, politico e morale: cosicché neppure è accettabile che un certo opportunismo fazioso trovi modo di affermarsi con la scelta, all’interno della massiccia modifica della Costituzione, di questo o quell’istituto sul quale manifestare consenso al cambiamento.
Il punto cardine è il seguente: se si tenta di manomettere un principio transculturale (per intenderci un principio di democrazia, di quelli che si esportano, anche col sostegno degli eserciti di pace, nei paesi scossi da crisi di legittimazione dei loro ordinamenti) non ci si accorda con gli autori del misfatto.
Si vuole la riduzione dei parlamentari come fase della progettazione istituzionale, non come strumento di allargamento del consenso degli elettori referendari! Poiché si finisce per indebolire il fronte di chi si oppone alla riforma della Costituzione che afferma l’indebolimento del Parlamento e della Presidenza della Repubblica, per consegnare il funzionamento del Paese ad un uomo solo al comando, il capo del governo. Un brivido di orrore scuote tutti noi davanti all’immagine, chiara e incontrovertibile, del connubio tra strapotere del Capo del Governo e strapotere dell’informazione. Nell’assenza di una costituzionalizzazione dell’informazione, vale a dire di un suo bilanciamento (non di una limitazione) nel quadro del funzionamento dei poteri, il potere forte di turno, che esprimerebbe maggioranza parlamentare e capo del Governo onnipotente, s’impadronirebbe, addirittura in virtù di previsioni costituzionali, del monopolio della forza, restringendo, temiamo, i confini della democrazia italiana.
Questa riforma costituzionale, massiccia o incomprensibile ai più, mi pare un gioco di prestigio, un enorme specchio deformante, costruito dai partiti per allontanare dalle loro oligarchiche dirigenze lo spettro di un richiamo riformatore.
Mentre, con buona fede ed intelligenza, in molta parte del Paese e della pubblica opinione, v’è accettazione e comprensione per una rilettura della Costituzione e per singole proposte di revisione, nei partiti si registra una chiusura tanto ottusa quanto poderosa verso un processo di riforme che li investa direttamente. Sia chiaro che le istituzioni democratiche del Paese, costituite nel solco della tradizione costituzionale europea, con le proprie caratteristiche sagomate sul modello della repubblica parlamentare, sono in grado di funzionare perfettamente, ove non siano impedite dal farlo a causa dell’invadenza partitica e della disomogeneità politica.
Ancora trenta anni fa, e prima ancora, vi era una diffusa consapevolezza che mai si sarebbe dovuta nutrire alcuna illusione sull’efficacia di modificazioni della Costituzione, se non si fosse affermata una approfondita, condivisa, autentica riconsiderazione del ruolo dei partiti politici e del loro rapporto con le istituzioni. Mi pare questo il cardine di una riflessione, per forza di cose, concisa e rivolta ad identificare le ragioni del NO alla prospettata riforma della Costituzione.
I partiti, fallimentari nel loro ruolo di collegamento della società con le istituzioni, accusano queste ultime di non funzionare, mentre le occupano e le svuotano dei loro contenuti di legalità, di democrazia, di rappresentanza. V’è spazio, ormai dichiaratamente (attraverso dapprima una massiccia partecipazione ai referendum, e, successivamente, attraverso una massiccia astensione ai referendum) per dar vita a profonde novità istituzionali, senza alcuna alterazione del quadro costituzionale, purché il primo passo riformatore riguardi la regolamentazione dell’attività dei partiti.
A queste considerazioni, il Parlamento o, forse, un organismo costituente, potrebbe con autentica autorevolezza rappresentativa affrontare le questioni del bicameralismo perfetto, del rafforzamento delle funzioni del governo, dei rapporti fra politica e magistratura.
Sia di guida un’osservazione particolarmente persuasiva, da farsi risalire ad una molteplicità di fonti, quasi una regola di saggezza, per la quale solo quando ci si muove all’interno della Costituzione si può raggiungere un ampio consenso politico e popolare; quando la Costituzione viene aggredita, come accade in questi nostri tempi, le lacerazioni fra le forze politiche (e, di conseguenza tra le persone) sono immediate e vastissime ed incolmabili. E non può darsi una Costituzione, la regola di tutti, che sia espressione della forza di pochi, di una maggioranza stretta, conquistata con uso spregiudicato dell’informazione e della comunicazione e con l’esposizione di contenuti di stampo demagogico estratti dal complesso delle riforme.
Abbiamo tutti la colpa di aver trascurato di custodire le nostre istituzioni; abbiamo lasciato, passivamente quando non corrivamente, che i partiti le usassero a loro piacimento: Un partito delle istituzioni non si è formato.Chi le ha amministrate ne ha abusato o ha lasciato che se ne abusasse.
E’ vero, è ora di un radicale cambiamento di atteggiamento. Incolpevolmente, abbiamo fatto acquiescenza verso una teoria in sé rassicurante (che quasi definirei antropologico-naturale) secondo la quale l’organizzazione partitica è in sé la soluzione più equilibrata ai problemi di confronto immanenti in ogni sistema politico libero (e quindi competitivo). Ma l’assunto dell’efficienza storica rispetto ai singoli microprocessi di cui è intessuta la vita quotidiana, se ha qualche fascino nel lungo e lunghissimo periodo, non ne ha alcuno nel breve. Microprocessi, come senz’altro debbono ritenersi la recente riforma elettorale e la stessa ipotesi di riforma costituzionale non ci lasciano né tranquilli né indifferenti: fra cento o mille anni, nessuno le ricorderà (infatti non mostrano i segni della genialità), ma oggi noi ne soffriamo.
La sottrazione della libertà di scelta dei propri rappresentanti, la violazione sistematica delle istituzioni e della costituzione fanno sì che l’efficienza storica si collochi per intanto ben al di sotto di un livello di tollerabile accettazione e soddisfazione.
Non intendiamo cedere né far cedere il diritto di partecipazione alle decisioni, nella consapevolezza che la struttura istituzionale entro cui opera la politica tocca tutti i nostri diritti, da quelli costituzionalmente garantiti, le libertà, fino a quelli che più propriamente definirei interessi, fra tutti quello di vivere in pace, quello della sicurezza quotidiana, della certezza che l’interesse generale è tutelato sopra ogni interesse di parte, corporativo.
Non intendiamo soccombere davanti all’onnipotenza di routines improvvisate e sostenute da massiccia informazione-disinformazione:intendiamo chiedere alla classe politica di seguire le regole, per evitare conflitti, per confermare gli accordi, per rassicurarci sul fatto che identità nazionale, interesse generale del Paese, valori e visioni di stampo europeo, sono e restano alla base della nostra Costituzione.
Noi intendiamo evitare che l’attenzione pubblica si incanali verso una riforma costituzionale improvvisata ed informe e si allontani dal vero problema della caduta di rappresentatività dei partiti.
Il rapporto dei cittadini con la politica continuerà a fondarsi sulla diffidenza anziché sulla fiducia, fino a quando i partiti, cardine costituzionale della partecipazione democratica, non saranno regolati in modo da non esorbitare dal loro ruolo, da non tracimare alluvionalmente nelle istituzioni.
Ciò ottenuto, con qualche appropriato misuratore, ricaveremmo vantaggi pari a parecchie leggi finanziarie, con rafforzamento dello Stato e dei suoi compiti.
Perchè la politica torni ad essere veicolo dell’ educazione dei cittadini alla partecipazione, alla condivisione, alla socievolezza, dobbiamo respingere tutti insieme la riforma costituzionale e chiedere con forza e progettare la riforma dei partiti, forse la riforma dell’ art. 49 della Costituzione.

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