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Crescita: è previsto solo un rimbalzino

La borghesia superi lo scetticismo

L’economia italiana appesantisce un sistema europeo già lento. Urgono soluzioni politiche

di Enrico Cisnetto - 10 novembre 2006

“L’Italia vive una crisi di crescita e di competitività” e il “vivace spunto di ripresa congiunturale a cui stiamo assistendo non è certo sufficiente ad avviare una rapida soluzione dei difetti strutturali del sistema produttivo”. Mentre ci si balocca a discettare sulla crescita al 2% quest’anno e al 3% l’anno prossimo, e sugli effetti (?) che avrà la vittoria dei democratici americani su di noi, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi tenta – con tutta probabilità inutilmente – di riportarci con i piedi per terra. Quello che l’economia italiana sta vivendo è soltanto un “rimbalzino” dopo anni di crescita zero, non solo per nulla significativo ai fini dell’uscita dal declino, ma anche in procinto di invertire la propria tendenza. Infatti, anche le più recenti indicazioni al rialzo per la crescita del pil nel 2006 – che probabilmente chiuderà a più 1,7%-1,8% – contengono la previsione che il 2007 sarà più rallentato (si ipotizza un +1,4%), come del resto in tutta Europa. Anzi, nessuno ha fatto caso ad un documento previsivo uscito un mese fa dagli uffici del commissario Ue agli Affari economici, Joaquin Almunia, che indicava una forte contrazione della crescita nell’ultimo trimestre 2006 e addirittura una crescita piatta nei primi tre mesi del 2007. Una stima che lo stesso Almunia ha poi definito un po’ troppo pessimistica, ma che la dice lunga sulla fragilità e momentaneità della ripresa europea. E siccome l’Italia ha sempre mantenuto, negli ultimi 15 anni, un stacco notevole dalla media Ue – sia nelle fasi di stagnazione come in quelle di rilancio – è giocoforza pensare che se il Vecchio Continente rallenterà, a maggior ragione questa sarà la nostra sorte.
Dunque, è inutile sperare che sia la corsa europea, o come qualcuno farnetica, il “sorpasso” Ue sugli Usa, a tirarci fuori dalle secche. Anche perchè, sono falsi due assunti da cui solitamente si parte per montare l’altarino della fiducia nella ripresa. Il primo dovrebbe ben conoscerlo il centro-sinistra, visto che nei cinque anni della scorsa legislatura ha giustamente criticato l’alibi berlusconiano del “siamo fermi perchè tutto il mondo va male”. L’economia mondiale non è mai cresciuta così tanto come dal settembre 2001 – grazie al combinato disposto della reazione americana al crollo delle torri di New York e del boom di Cina ed India – e continua ad andare alla grande (il pil mondiale +5% quest’anno, poco meno il prossimo). Dunque la nostra congiuntura è più condizionata dai fattori di crisi strutturali che dall’andamento dell’economia globale, ed è alle nostre dinamiche che dobbiamo guardare, senza cercare scuse false e speranze vacue al di fuori dei confini.
Il secondo motivo riguarda l’andamento dell’economia americana. Da più di un anno si pronostica una caduta verticale, si dice che lo sboom immobiliare – che è effettivamente in atto – avrebbe causato una crisi dei consumi e portato recessione. Ma proprio in questi giorni si è toccato il record storico a Wall Street, e non sarà certo lo “stallo” di Bush evocato in Italia a seguito della vittoria democratica a frenare la “locomotiva mondiale”. Certo, a menare la danza della politica monetaria non c’è più quel genio assoluto di Alan Greenspan, ed è vero che la curva del pil è (un po’) più bassa, ma francamente sentir parlare di hard landing è ridicolo. E comunque, le nostre esportazioni – che sono aumentate (in valore) verso l’Asia e non verso gli Usa – dipendono molto più dal tasso di cambio euro-dollaro che non dall’andamento dei consumi degli americani.
Per questo mi spaventano le previsioni sui nostri consumi interni, fatte ieri da Confcommercio: anche considerate al netto delle recenti polemiche con il governo sulla Finanziaria, che possono aver indotto Carletto Sangalli a picchiare duro, esse indicano comunque una crisi per fine anno che non può non preoccupare. Non che sia convinto, come invece sostiene la Cgil in uno studio dell’Ires di ieri, che la strada dello sviluppo sia quella dell’alimentazione della capacità di consumo, attraverso politiche dei redditi equitativo-espansive. Anzi, questa è una pia illusione che prima perdiamo meglio sarà: il problema non è mettere benzina nel motore, ma cambiare il motore della nostra macchina economica, non più adeguato al mutato contesto internazionale. Ma le rilevazioni sul sentiment dei consumatori sono indicative del clima psicologico del Paese, che capisce di non avere prospettive e si rinchiude in se stesso anche se finora l’alta patrimonializzazione delle famiglie ha ben compensato la mancanza di nuovo reddito e gli alti prezzi portati dall’euro.
L’altro giorno mi è capitato di intervenire a quell’assemblea di Federmanager, straordinariamente affollata, in cui il buon Nicola Rossi sarebbe stato fischiato (uso il condizionale perchè la stragrande maggioranza lo ha applaudito per le sue coraggiose posizioni anticonformiste). Si protestava contro la Finanziaria targata Visco, ma in realtà in sala c’era una fetta importante di borghesia che soffriva, anche fisicamente, della mancanza di un progetto per il Paese. Sotto l’epidermide dell’umore, era lo scetticismo a farla da padrone. E se a non avere fiducia è la realtà sociale più dinamica e abituata, per professione, a guardare al futuro, a stare sul mercato, a giocarsi la partita, come si fa a invertire la rotta e sconfiggere il declino? La risposta, non mi stanco di ripeterlo, è solo ed esclusivamente politica. E di questo, quella “buona borghesia”, deve convincersi.

Pubblicato sul Foglio del 10 novembre 2006

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