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Riflessioni sul nascente Partito Democratico

La Babele democratica

All’Italia ferma servono riforme strutturali non partiti unici dalle buone intenzioni

di Giacomo Fedi - 24 aprile 2007

Come volevasi dimostrare. Il Manifesto del Partito Democratico, per quello che si legge fino ad oggi, è un insieme eterogeneo di ovvietà e di buone intenzioni nella cornice di una retorica alquanto scontata, pur se necessaria, che sostanzialmente non suggerisce alcuna soluzione ai problemi fondamentali del Paese, né indica alcuna via pratica per la realizzazione delle tanto auspicate riforme.

Sul piano concettuale si esordisce con un chiaro rinvio alla Costituzione europea invocando l’arte, la cultura (quanto meno si è capito quale è il destino del nostro Paese: il turismo), le bellezze naturali dell’Italia e “la ricca umanità della sua gente”: un piccolo e modesto tentativo di applicare nei nostri confini il più grande progetto di sintesi europea delle diverse culture. Si omette però di ricordare che noi siamo gli eredi del pensiero classico, della filosofia greca e del diritto romano, sebbene sia presente un riferimento al cristianesimo e all’illuminismo settecentesco, a me personalmente molto cari.
Non si riesce però a trovare una sintesi credibile fra tutte le istanze presentate come fonti dell’identità del nuovo (?) Partito Democratico: nulla si dice, per esempio, di come cristianesimo ed illuminismo possano essere complementari e di come il primo abbia informato il secondo; si citano “diritti della persona”, il pensiero liberale, il cattolicesimo, il socialismo, il movimento ambientalista, insomma, un minestrone di concetti non abbastanza approfondito in cui l’identità sa più di “volemose bbene” che non di seria sintesi che abbia come perno di riferimento comune la Ragione. E non illudiamoci che lo scontro di civiltà fra l’Occidente e l’Islam sia solo una minaccia possibile, perché in verità esso è iniziato già da un pezzo.
La religione poi è solo un pretesto: noi uomini, come tutti gli esseri viventi, siamo in lotta per le risorse, e per impossessarcene usiamo strumenti più o meno elaborati, fra i quali appunto le guerre di civiltà o di religione. Considero infine aspetti positivi del manifesto il richiamo all’Europa e l’aspirazione all’unità politica del Continente, nonché il riferimento all’opportunità di affermazione personale indipendentemente dal censo, ivi incluso il richiamo alla responsabilità individuale, alla vocazione imprenditoriale, alla lotta ai favoritismi e ai nepotismi.

Sotto il profilo pratico non si indica, ripeto, come applicare le nobili aspirazioni elencate, per altro assolutamente condivisibili: riforme, liberalizzazioni, più soldi alla ricerca, incentivazione della libera concorrenza. In sostanza, anche sul piano dell’applicazione concreta si legge fra le righe un tentativo di non scontentare nessuno, di essere d’accordo con tutti, insomma, di essere domocristianamente aperti a sentire il parere di chiunque senza ascoltare veramente nessuno. Di nuovo un brodo indistinto. Sebbene io non sia aprioristicamente contrario al sincretismo, anzi, possa spesso incoraggiarlo, tuttavia interpreto il manifesto del partito democratico esattamente come un’alleanza catto-comunista, essendo questo, a mio avviso, lo scopo ultimo di tutto l’esperimento politico. In questo contesto ritengo molto difficile poter esprimere la tradizione repubblicana, liberale e laica che noi rappresentiamo, in un’alleanza che privilegia il socialismo e il cattolicesimo popolare delle piccole realtà locali.

In un’epoca di pensiero forte, temo che il pensiero debole espresso da questa sintesi catto-comunista, potrebbe essere accolto dall’elettorato poco calorosamente (come fra l’altro già indicano alcuni sondaggi). L’entusiasmo dei quattro milioni di voti al referendum per Prodi ai tempi dell’Ulivo non implica necessariamente una vittoria del Partito Democratico, perché il clima politico è diverso: il bipolarismo italiano ha mostrato ai cittadini un incremento di rissosità e di inefficacia politica, oltre ad aver spinto i moderati fra le braccia di Berlusconi e del neocentrismo di Casini.
Gli elettori di sinistra saranno, a mio avviso, sempre più tentati di votare la componenti estreme, quelle che difendono ottusamente pensionati e dipendenti pubblici, quelle che vorrebbero lo Stato onnipresente, pronto ad impicciarsi di ogni libertà dei singoli, a trasferire risorse alle parti meno produttive del Paese a danno dei giovani e dei più intraprendenti. A questo proposito io stigmatizzo e considero esiziale un’alleanza di governo con comunisti, rifondaroli, girotondini, pacifisti assolutisti, e in generale con chiunque non comprenda l’importanza della nostra identità occidentale intesa come laica concezione dello Stato, filosoficamente illuminista e profondamente liberale.

A tale proposito, pragmaticamente, auspico per il nostro Paese il seguente calendario politico: riforma del sistema pensionistico, liberalizzazione delle professioni, delle attività commerciali, delle licenze dei taxi (previa restituzione, in questo caso, dei soldi spesi per l’acquisto delle licenze), dei distributori di carburante, dei farmaci da banco, dei notai, delle public utility e dell’energia (lo Stato potrebbe mantenere una quota, ovvero intervenire nei casi di necessità per i meno abbienti ai quali andrebbero comunque garantiti servizi minimi); questa è la via per modernizzare il Paese e per garantire una vera democrazia liberale, in senso repubblicano e mazziniano, cioè garantire a tutti la possibilità di realizzarsi secondo i propri talenti, indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche di nascita. E’ su questo punto che si deve concentrare, a mio avviso, il dibattito politico, con coraggio, senso dell’etica e competenza professionale, abbattendo il vecchio sistema illiberale tipico di una società non democratica capace solo di esprimere una classe politica priva di competenze specifiche che fa della burocrazia del potere un mestiere.
Investire nei giovani, nel lavoro e nell’istruzione pubblica devono essere le priorità, prelevando i fondi necessari dal recupero dell’evasione fiscale, dalla riforma del sistema di prelevamento delle imposte, dalla spesa pensionistica e dai trasferimenti alle amministrazioni locali (con l’eccezione della spesa sanitaria), voragine in cui sono disperse le ricchezze del Paese.

Se la necessaria trasformazione che il Repubblicanesimo deve compiere nell’era moderna implica la necessità di trovare una collocazione nel panorama politico attuale, tuttavia la scelta non deve derogare ai principi etici ed economici che lo hanno sempre caratterizzato. E’ preferibile diluirsi nel Partito Democratico o aggregarsi con tutti gli altri micro-gruppi liberali e riformisti? Sebbene io abbia da sempre caldeggiato la seconda via, ritenendola la più naturale, mi rendo perfettamente conto che è necessaria un’analisi politica di opportunità. Il problema non è tanto quello di scegliere l’una o l’altra via, quanto piuttosto quello di approfondire e condividere programmi e contenuti.

Personalmente considero la politica economica la cifra fondamentale di ogni movimento di opinione che miri a governare un Paese, essendo l’organizzazione della produzione di beni e servizi, la gestione delle risorse e la redistribuzione del reddito, il punto di partenza di ogni seria attività politica; ritengo altresì che la tradizione repubblicana debba oggi essere riletta pienamente in chiave riformista. L’Italia è un Paese ancora fermo alle logiche corporative medievali, ai sistemi di produzione degli anni ’60, non in grado di dar corso ai processi di trasformazione che la globalizzazione impone, guidato da politici mediamente incompetenti, incapaci di assumersi la responsabilità morale e politica di decisioni difficili. In poche parole, sia sotto il profilo del pensiero filosofico che dal punto di vista economico, l’Italia è ancora un Paese pre-moderno. Essere repubblicani oggi, in questo contesto, significa dunque riscoprire la nostra vera natura di rivoluzionari: un rivoluzionario oggi non può non essere riformista, e in quanto riformista, sarà necessariamente anticonformista. L’opposto del buonismo facilone dell’alleanza catto-comunista. Sarà possibile cambiare dall’interno la natura del Partito Democratico e volgerla verso il riformismo e l’etica repubblicana? Quale spazio ci sarà veramente dato?

Concludo con alcune considerazioni sulla possibilità di perseguire la via alternativa a quella del Partito Democratico, cioè l’alleanza repubblicana-liberale-riformista. I sondaggi danno il movimento centrista di Casini e Follini (insieme) al 7.5%, che con il 3.5% di Mastella fa l’11% per la nuova DC; facilmente, poi, la forza di centro supererebbe il 12% con le altre liste locali. Il 12% è forse più di quanto potrebbe prendere Alleanza Nazionale. Il tutto condito in un misero 23-25% per il Partito Democratico (meno di DS e Margherita presi singolarmente). Ciò significa che, in barba al bipolarismo, senza la “nuova” DC nessuno governa. In questo contesto si deve davvero ritenere improbabile il raggiungimento di almeno il 5% da parte di un nuovo soggetto politico che apertamente dichiari di fondare le sue origini sul Repubblicanesimo, sul liberalismo, sull’idea laica ma non laicista dello Stato, sull’etica illuminista e sul rispetto della dignità della persona umana? Io penso di no. Il clima internazionale è rovente, il quadro politico italiano scricchiola, secondo me un movimento neo-illuminsta, liberale e riformista basato su una forte etica laica, non in contrasto con il bisogno di spiritualità dell’uomo, potrebbe avere un successo maggiore di quanto si creda.

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