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Analisi puntuali, ricette già sentite

L’Ocse e il declino italiano

Liberalizzare senza se né ma, più R&S, tagliare il costo-lavoro. E’davvero il rimedio a tutto?

di Alessandro D'Amato - 07 febbraio 2006

Anche “l’indice della felicità” ci vede agli ultimi posti. Il rapporto dell’Ocse “Going for Growth 2006: Economic Policy Reforms” contiene anche una curiosità, punta dell’iceberg e cartina di tornasole di un’analisi che riporta un giudizio ancora una volta per nulla lusinghiero sul nostro paese. E quindi, anche una tabella poco ortodossa riesce a fotografare il sentimento di soddisfazione dei cittadini italiani.

Clicca qui per aprire il grafico relativo alla correlazione tra la spesa in ricerca e sviluppo e i brevetti registrati.

Nella classifica sul “well-being” redatta dall"organizzazione di Parigi, però, “i cinque paesi con i più bassi segni di benessere sono anche quelli che hanno una più bassa media di reddito pro capite”. C’è anche l"eccezione, il Messico, certo tra i Paesi non più ricchi, che è comunque in vetta alla classifica, solo dopo Danimarca, Irlanda e Svizzera. L’Italia si colloca solo al diciottesimo posto, prima di Spagna, Francia e Giappone. “A parte le entrate - rileva l’Ocse - studi hanno dimostrato che i sentimenti di benessere e felicità dipendono dal fatto di avere un lavoro o essere disoccupato, dalla forza dei legami familiari, dalla salute e l"educazione, dalla percezione della qualità delle istituzioni”. Anche in questo siamo agli ultimi posti tra i paesi più industrializzati.

L’Ocse fa poi notare che l’Italia risulta il fanalino di coda tra i Paesi del G7 nel tasso di popolazione con una formazione universitaria tra i 25 e i 34 anni; che è sempre piu" ampio il gap tra Unione Europea e Stati Uniti nel reddito pro-capite. E che “il rallentamento della crescita della produttività del lavoro che si fa sentire dalla metà degli anni "90, unito ad una debole crescita nell"utilizzazione della forza lavoro”. A prezzo di record i costi bancari: l’Italia è medaglia di bronzo nella classica tra i paesi dove si spende di più per i servizi degli istituti di credito, dopo Messico e Turchia. Sul fronte dell’innovazione, nonostante i progressi degli ultimi anni, l’Unione europea tutta resta ancora dietro Giappone e Stati Uniti.

Sul fronte delle ricette per colmare il gap con i paesi più industriale, le proposte dell’Ocse però non portano molto di nuovo al dibattito già in corso in Italia (anche se pressoché ignorato dalle coalizioni politiche, impegnate ad insultarsi a vicenda più che nel redigere i programmi): “La privatizzazione delle aziende in mano pubblica - rileva l"organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - deve essere accelerata e la golden share sostituita da un sistema stringente di regole”. Già sentito, in altre occasioni. Non solo: la privatizzazione senza liberalizzazione dei monopoli tariffari italiani non ha, alla fine, portato niente di buono né ai consumatori né alle aziende italiane. Questo non vuol dire che le privatizzazioni non vadano fatte, per carità: si vuole solo registrare una tendenza diffusa da parte di chi fornisce le analisi a portare sul piatto ricette già sperimentate, che però non vengono declinate paese per paese con un’attenzione particolare alla loro effettiva utilità. Un po’ quel che diceva Joseph Stiglitz del Fondo Monetario Internazionale, che non era in grado di comprendere le peculiarità delle crisi e forniva ricette univoche che mal si adattavano alle situazioni contingenti, aggravando le crisi invece che risolvendole.

Quanto invece alla forza lavoro, l"Ocse suggerisce una diminuzione del carico fiscale che contribuirebbe anche alla “riduzione della percentuale di lavoro informale”, cioè il lavoro nero. Ma l’organizzazione di Parigi non si limita a suggerire la riduzione degli “alti tassi fiscali e contributi pensionistici, soprattutto sui salari medi e bassi” ma spinge al contempo al “rafforzamento dell"applicazione delle leggi fiscali e all"interruzione delle amnistie fiscali”. Un altro nodo riguarda il tasso di scolarità e per questo l"Organizzazione suggerisce di legare le carriere degli insegnati ai risultati (e magari anche quella dei presidi, viene da aggiungere, visto che i responsabili ultimi delle decisioni sull’andamento degli istituti sono loro). La pubblica amministrazione dovrebbe invece muoversi verso una contrattazione sul territorio affinché i salari tengano conto “delle differenze regionali, non solo di produttività ma anche di costo della vita”.

Ricette già sentite che seguono analisi puntuali. Non una parola dell’Ocse sulla situazione tragica del mercato del lavoro italiano, sull’impossibilità medievale di cambiare classe sociale nel paese e sull’obbligo, a causa dell’assenza di sbocchi professionali, per i figli di fare lo stesso mestiere del padre. Come i servi della gleba di prima dell’anno Mille. Non una parola dell’Ocse sulle rendite di posizione che caratterizzano una parte importante del “reddito” degli italiani, sulle ingiustizie sociali di un paese che vive di Ordini (avvocati, commercialisti, etc: uno per ogni mestiere, come nelle corporazioni medievali) e nel quale le tariffe minime che bloccano la concorrenza vengono mantenute grazie ad azioni di “lobbying continua” che nessun potere politico riesce ad arginare nel nome del benessere altrui.

Ma le responsabilità non sono solo di chi persegue il proprio interesse disinteressandosi del benessere altrui. Tirati per la giacchetta da sindacati, consorterie e categorie, e anche molto interessati ai voti “a pacchi” che secondo loro dovrebbero regalare dopo ogni favore, i politici italiani si disinteressano però sia delle analisi più superficiali che di quelle più approfondite. E l’Italia langue immobile.

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