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I veri interrogativi dopo le assise del PDL

L’irresistibile corsa al partito unico

Da Partito Del Leader a partito della Nazione? Come e perchè?

di Elio Di Caprio - 30 marzo 2009

Ma basta la “lucida follia” di Berlusconi per dare sostanza e vita ad un paritito, il PDL, che si rinnova più sulla scena mediatica che nella realtà grazie al carisma di colui che una volta amava farsi rappresentare come il Presidente operaio? E’ veramente il PDL un partito destinato a durare decenni come la vecchia DC interclassista?

Ci vuole ben altro per governare una società alle prese con problemi nuovi che neppure era immaginabile affrontare solo 20 anni fa: dall’immigrazione piombata bruscamente su un popolo di emigranti, come è stato tradizionalmente quello italiano, ai problemi della morte assistita e del testamento biologico divenuti comuni a tutti per l’alto tasso di longevità acquisita, questa sì la vera rivoluzione degli ultimi anni. Per non parlare della crisi economica globale intervenuta dopo che nell’ultimo ventennio le distanze sociali si sono enormemente accresciute impoverendo quel ceto medio che resta la colona portante di ogni società occidentale equilibrata.

L’ha capito, a modo suo, Gianfranco Fini che alla lucida follia del Capo ha pagato più volte i prezzi di un’obbligata convivenza, l’hanno capito meno i luogotenenti di AN, gli ex colonnelli che ora non potranno neppure autodefinirsi tali alla corte del Cavaliere già occupata dai suoi fedelissimi della prima e dell’ultima ora.

L’entrata in scena del Presidente del Parlamento al congresso di fondazione del PDL, il suo irrompere con argomentazioni politiche, ostentatamente di respiro lungo, sull’Italia che verrà e sulla qualità della nostra democrazia laica hanno rotto quello che fino ad allora sembrava un involucro celebrativo precostituito a due voci di rimando tra il capo e il suo popolo dinanzi alla platea televisiva globale. Fini ha costretto tutta l’informazione- addomesticata e non- a prendere atto che già si vede, non si intravede, una vera dialettica fatta di posizioni distinte se non opposte in un partito che ama presentarsi come unico ed unitario, come partito del popolo appunto.

Chi avrebbe mai potuto impedire che Fini dicesse apertamente la sua profittando del palcoscenico mediatico , senza intermediazioni, con la solennità del caso, anch’egli in diretto contatto con il popolo così come ha fatto e fa Berlusconi?

Ma così è risultato evidente che ci sono già due registri, due stili, due diverse rappresentazioni del futuro che, tra propaganda e realtà, i due laeders, Berlusconi e Fini, si sforzano di incarnare e che, in base alle circostanze, potranno un domani profondamente divergere. Da una parte c’è chi conta sui mirabolanti risultati di una gestione personalistica del potere, dall’altra chi invoca regole e cultura. Né può sorprendere più di tanto l’intimo disagio di Gianfranco Fini, lui che per tanti anni assieme alla sua comunità è stato tenuto ai margini dal pensiero unico a riconoscersi in un partito unico senza dialettica, come rischia di diventare il berlusconismo, che ha già raccolto per ragioni di potere i Dini, i Masella, i Capezzone e tutti gli altri politicanti che salgono sul carro del vincitore.

La realtà storica è che dal giolittismo degli albori del secolo trascorso, al fascismo, al governo unico della DC e ora, sembra, al berlusconismo, l’Italia si è abituata da tempo alla pigra convivenza con la cultura e la realtà del partito unico o egemone. C’è stata nel mezzo la transizione infinita della “Seconda Repubblica” che però, guarda caso, ha fatto degenerare l’alternanza in frammentazione crescente a scapito della governabilità inaugurando così una corsa alla semplificazione estrema fino ad arrivare al partito del leader. E, tanto per cambiare, quale è la “nuova” cornice pseudo culturale che tutto spiega, raccoglie e semplifica? L’anticomunismo come valore fondante, così come prima per quasi mezzo secolo era stato l’antifascismo.

Il problema dello Stato, di cosa è e potrà essere nelle comunità post moderne sempre più difficili da governare è rimasto e rimane inspiegabilmente nell’ombra. La sostanza della cosiddetta rivoluzione liberale del PDL si fonda sulla lotta dell’individuo indifeso e tartassato contro lo Stato onnipotente e burocratico, ma poi Berlusconi va a Napoli e dice che lì finalmente lo Stato c’è, è grazie allo Stato che la spazzatura non c’è più e la camorra verrà sconfitta. E’ sempre e solo lo Stato che sta intervenendo per alleviare le conseguenze della crisi economica, per dare soldi alle banche ed ai collaboratori di progetto.

Quindi interviene l’apoteosi congressuale del Ministro Brunetta che si vanta di aver messo in mora i “fannulloni”, i milioni di dipendenti statali che pure rendono possibile ogni intervento pubblico. Dove è allora lo Stato e quale è il vero Stato che vogliamo? Ma non basta. Gianfranco Fini riprende i fili del discorso sempre interrotto sulla revisione della seconda parte della Costituzione rendendolo finalmente un tema popolare. Sorge però spontanea la domanda di come sia stato possibile che per decenni, non per anni, il problema non sia stato mai avviato a soluzione quando sono proprio i Presidenti o ex Presidenti di Camera e Senato in prima persona, loro che dirigono i lavori delle assemblee - non il comune cittadino infastidito per le tante lentezze- a confessare che il sistema sotto il loro controllo non funziona e non ha mai funzionato. Ci troveremo di nuovo di fronte ad una tirata propagandistica?

Certo il Cavaliere, ha buon gioco a dimostrare che, nonostante tutto, lui ha pragmaticamente fatto delle cose che i governi della sinistra non sono mai riusciti a fare. La realtà sembra dargli ragione a corto raggio. Ma se non vengono risolte le contraddizioni di base su quale Stato vogliamo e su come vogliamo che funzionino le Istituzioni nessun partito unico o pensiero unico, o leader unico sarà sufficiente a rifondare le basi della nostra convivenza civile.

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