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La crisi dell’economia: percezioni e ricette

L’Irap va tagliata, ma non a tutti

Chi negava il declino ammette la recessione. Col rischio però di reazioni estemporanee

di Enrico Cisnetto - 23 maggio 2005

Possibile che dove non è riuscito il declino, riesca la recessione? Possibile. Sto parlando, ovviamente, del grado di percezione che la classe dirigente del Paese ha della crisi italiana, visto che in realtà la decrescita del Prodotto interno lordo (Pil) è solo una conseguenza momentanea di un fenomeno strutturale ben più grave come la progressiva involuzione del sistema-Italia, sia sotto il profilo economico che socio-politico.

Eppure, sul declino abbiamo registrato due atteggiamenti diversi ma altrettanto perniciosi: prima se n’è negata l’esistenza, in nome di un ottimismo “governativo” – mostrato sia dal centro-sinistra nella scorsa legislatura che dal centro-destra in questa – cui non ha fatto certo da efficace contrappeso il pessimismo in salsa populista e nichilista della “opposizione” (quella di ieri e quella di oggi); poi, di fronte all’evidenza, si ammette che il declino c’è, ma lo si esorcizza dicendo che viene da lontano (vero, ma è un aggravante) e che comunque è di tutta l’Europa (vero, ma in prospettiva).

Ora, come per incanto, è bastato che sui giornali comparisse la parola recessione, ed ecco che tutti i pudori sono spariti, che tutti gli ottimismi – sotto sotto, forse anche quello inossidabile di Berlusconi – lasciano spazio alla preoccupazione. Forse, finalmente, si apre una fase di riflessione e di consapevolezza sulla reale condizione del Paese, premessa indispensabile per affrontare il declino e superarlo. Dunque, paradossalmente, ben venga per il secondo trimestre consecutivo quel segno meno che ci dice che siamo in recessione e che ci dobbiamo spaventare. Ci sono però due rischi. Il primo è la durata del fenomeno: gli analisti più preparati – quelli, per capirci, che parlano di declino dall’altroieri – ci fanno sapere che al massimo quel segno meno lo avremo ancora per un trimestre, forse nemmeno, e che è lecito attendersi un piccolo rimbalzino. Cosa che non risolverebbe alcuno dei nostri problemi, ma che potrebbe invece essere utilizzato per ridimensionare il fenomeno ad una dimensione congiunturale, che sarebbe vera se non fosse che s’inquadra in un contesto di declino strutturale. D’altra parte basta vedere la serie storica del Pil per capire che non siamo di fronte ad un fatto episodico: nel quinquennio 2001-2005 la crescita media annuale sarà tra lo 0,86% e lo 0,78%, a seconda di quanto si ipotizza essere il risultato di quest’anno. Nel primo caso, infatti, ai risultati conseguiti dal 2001 in poi (1,8%-0,4%-0,3%-1,2%) si immagina di aggiungere un +0,6%, cioè la cifra che ha fatto intendere pur non esplicitandola il ministro Siniscalco nella sua audizione parlamentare di martedì – e che rappresenta la metà della previsione indicata nella trimestrale di cassa di solo qualche giorno fa (1,2%), a sua volta ben distante da quel 2,1% sbandierato a inizio anno – mentre nel secondo caso si prenderebbe in considerazione la previsione più negativa di molti centri di ricerca, che stimano impossibile che il pil corrente salga più dello 0,2%.

Il secondo rischio che si corre è che la parola recessione scateni gli istinti reattivi peggiori. E cioè, che si voglia ricorrere, nella frenesia di farsi vedere capaci di reagire, a misure tanto estemporanee quanto parziali, il cui esito sarebbe doppiamente nefasto: tanta spesa e poco (e/o cattivo) sviluppo. Per capirci, è il caso assai gettonato dell’Irap. A parte ogni considerazione sul repentino cambio di marcia (comunque positivo) tra la riduzione dell’Irpef, che come previsto non ha portato un centesimo in più ai consumi, e quella dei carichi fiscali sulle imprese, occorre dire con chiarezza che c’è una via virtuosa e una quantomeno inutile alla riduzione dell’Irap. La prima prevede un procedimento selettivo che favorisca le imprese inserite in settori che abbiano reali prospettive di sviluppo nel contesto competitivo mondiale e abbia il coraggio di lasciare al loro destino quelle dei settori “poveri” dove il confronto con i paesi emergenti ci vede inevitabilmente soccombenti, la qual cosa è possibile solo dopo aver tracciato un progetto per costruire il Paese di domani. La seconda via per la riduzione dell’Irap è quella, temo, verso cui andiamo: un taglio generalizzato, che risulterà insufficiente per chi ha vere prospettive di crescita e palliativo (sei mesi d’ossigeno) per chi è o sta andando fuori mercato.

E’ chiaro che, in questo contesto, non aiuta il dibattito tutto ideologico tra i fautori del “più mercato” e quelli del “più Stato”, o se vogliamo sofisticare un po’ di più, tra i sostenitori di politiche “fattoriali” (tasse, costo del lavoro, infrastrutture materiali e immateriali, welfare delle opportunità) e quelli che vogliono le politiche “settoriali” (scegliamo dove investire). Come se, invece, non fossero necessarie entrambe le cose, e la capacità e responsabilità della politica non sia proprio quella di saperle mixare. Speriamo che la recessione “taumaturgica”...

Pubblicato sul Foglio del 21 maggio 2005

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.