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Timori e dubbi in attesa del ballottaggio

L’Iran aspetta la sua democrazia

La scelta sarà tra il conservatore Rafsanjani e l’ultraconservatore Ahmadinejad. E poi?

di Antonio Picasso - 20 giugno 2005

Elezioni tanto attese, ma dai risultati inaspettati, che non danno certezza al processo democratico. Venerdì 17 giugno in Iran, si è tenuto il primo turno delle elezioni. Il sorprendente risultato è stato che, al ballottaggio di venerdì prossimo, concorreranno il conservatore Akbar Hashemi-Rafsanjani, già presidente dal 1989 al 1997, e l’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad. Tutto il contrario, quindi, di quanto pronosticato dalla stampa occidentale, la quale sperava nel passaggio dell’ex ministro dell’Università, Mostafa Moin, il più propenso alle riforme e alla modernizzazione del Paese. “Il vero dato politico, tuttavia, è la scarsa affluenza alle urne”, dice Nicola dell’Arciprete, del segretariato generale dell’Unpo. Il boicottaggio alle elezioni, promosso dalle opposizioni democratiche, ha raccolto più consensi di qualunque candidato. Un’astensione del 40%, secondo il ministero degli Interni iraniano. Un dato che fa riflettere.

L’Iran sta vivendo una crisi sociale, una frattura generazionale, prosegue dell’Arciprete, in cui gli studenti, le donne e le minoranze, che a queste elezioni non sono state rappresentate, sarebbero i potenziali strumenti per l’evoluzione politica, e quindi democratica, del Paese. In un intervento su Alternatives Internationales della settimana passata, Farina Adelkhah metteva in evidenza i punti deboli della struttura sociale iraniana. Stato, clero e famiglia sarebbero, secondo la sociologa dell’Istituto di lingue orientali a Parigi, destinati a un netto cambiamento. Dopo otto anni di guerra con l’Iraq e la morte di Khomeini, Rafsanjani, già nel 1989, aveva intuito l’impossibilità a continuare sulla strada dell’integralismo. Ma la via delle riforme era stata bloccata dalle pressioni degli ultraconservatori. E il successore di Rafsanjani, Mohammad Khatami, ha mantenuto, durante il suo mandato, lo stesso atteggiamento di titubanza e timore. Oggi, quindi, l’Iran è ancora all’anno zero. Perché la struttura familiare patriarcale, così com’è, ripiegata su se stessa, non ha più ragion d’essere, scalzata lentamente dal valore occidentale della proprietà privata. Mentre le istituzioni politiche si stanno distaccando dalla tradizione teocratica khomeinista. Di conseguenza, è obbligatorio che Teheran definisca delle alternative politiche, capaci di tenere il passo con la modernizzazione del Paese.

E sarà proprio nel campo della politica la sfida più impegnativa per il futuro presidente. Ammesso e non concesso che Rafsanjani o Ahmadinejad abbiano veramente intenzione di cambiare il volto del Paese. Perché i programmi di entrambi fanno supporre il contrario. Le ambizioni nucleari, infatti, già espresse da tutti i candidati, sia riformisti che conservatori, osteggiano le speranze di apertura che l’occidente nutre. Anzi, come osserva ancora Nicola dell’Arciprete, quello di Teheran è un regime che si sente accerchiato e isolato. Teme le trasformazioni democratiche che stanno coinvolgendo tutto il Medio Oriente, in evidente contrasto, queste ultime, con la corsa agli armamenti. “Mettendo da parte i valori della vita – aggiunge dell’Arciprete – il governo imbocca di bombe atomiche gli iraniani che chiedono democrazia”. Non è per nulla ottimista il dirigente dell’Unpo, quindi: “elezioni in cui tutti i candidati devono essere approvati da ayatollah barbuti sono, in realtà, contrarie alla democrazia”. La svolta dell’Iran, invece, dovrebbe passare dall’uso dell’informazione per contrastare la propaganda fondamentalista del regime e dall’organizzazione di un referendum sotto l’egida della comunità internazionale. “Per avviare una riforma costituzionale, come richiesto dalle opposizioni democratiche, dal Partito radicale transnazionale e dal movimento studentesco non violento iraniano”. Un progetto magnifico, non c’alcun dubbio. Resta solo una domanda: quando?

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