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Public Policy

Tutte le responsabilità della politica

L’infinita odissea Telecom

Questo Vietnam non si poteva evitare nel ‘97 facendo una seria politica industriale?

di Elio Di Caprio - 13 aprile 2007

Se va male una privatizzazione se ne fa un"altra. Sembra questo il destino infinito di Telecom dopo le ultime vicende dell" alienazione delle quote di controllo della società da parte dell"ex manager Tronchetti Provera. Tutti di nuovo al capezzale Telecom, ma con quali informazioni e quali ricette? Ancora non si sa a chi toccherà il controllo finale della società telefonica o se ci saranno altri successivi passaggi di mano. Adesso si aggiunge anche il difficile equilibrio tra le esigenze di mercato e quelle pubbliche di salvaguardare almeno la rete telefonica e la sua nazionalità. E poi bisogna tener conto delle costrizioni europee che tendono ad emarginare ogni intervento pubblico, accrescendo piuttosto i poteri delle Autorità di regolazione e controllo.

Il profluvio di pseudo-informazioni e di commenti di analisti più o meno interessati poco potranno fare per indirizzare in un senso o nell"altro il destino della società che si gioca – ormai l"hanno capito tutti - su più tavoli, alcuni dei quali riservati e sconosciuti all"opinione pubblica. Dall"esterno si potrà continuare a studiare e ad ipotizzare, a produrre impeccabili scenari di mercato italiano o europeo o addirittura mondiale, ma poi le chiavi sono altrove, nelle reali convenienze economiche dei nuovi investitori. A denti stretti tutti ammettono che la privatizzazione di Telecom è stata condotta in maniera sbagliata sin dall"inizio. Ora bisogna solo correre ai ripari e correggere, salvando il salvabile. Ma se si sono fatte male le privatizzazioni non significa forse aver mancato una delle poche occasioni privilegiate di fare vera politica industriale? Lasciare intatto per anni il sistema delle “scatole cinesi” che consente ad esigui assetti proprietari di controllare a cascata intere società, come nel caso Telecom, non è essa stessa una cattiva politica industriale? Non c"è stato finora nessun sapiente signor Rossi che sia stato in grado di risolvere quest"ultimo rebus capitalista, tipicamente italiano, del controllo delle società da posizioni di minoranza.

Dicono che la privatizzazione di Telecom nel 1997 sia stata una mossa obbligata del governo Prodi, uno dei tasselli più importanti richiesti dall"UE per aprire all"Italia le porte dell"euro. All"epoca Ministro del Tesoro era Carlo Azeglio Ciampi e direttore dello stesso Tesoro era l"attuale direttore della Banca d"Italia, Mario Draghi. Con tecnici ed economisti di tale calibro al governo non potevano esserci migliori garanzie perchè la privatizzazione di Telecom avvenisse in maniera accorta, virtuosa e professionale. E invece è accaduto il contrario, è iniziata l"avventura, con un crescendo di passi sbagliati che hanno ampiamente testimoniato, nell"arco di dieci anni, l"inadeguatezza del capitalismo italiano da una parte e l"impreparazione dei privatizzatori dall"altra.

Allora nessuno si era posto il problema della rete, della sua nazionalità, della sua proprietà che solo adesso viene considerata strategica per il nostro sistema industriale. Il secondo avventuroso passaggio di mano di Telecom a Colaninno e soci avvenne con il governo D"Alema quando responsabile del Ministero dell"industria era quello stesso Bersani che ora si dice preoccupato per l"instabilità degli assetti proprietari di Telecom e per il destino della rete che non è stata sviluppata con adeguati investimenti. Si parla di fibra ottica e di investimenti necessari per 10 miliardi di euro. Ma chi li fa? E" ancora un servizio pubblico farli?

La realtà è che le incertezze del confuso sistema politico venute alla luce nel travagliato e brusco passaggio dalla cosiddetta prima Repubblica alla Seconda si sono riverberate anche nelle scelte o non scelte di politica industriale, determinando decisioni affrettate e incoerenti, prive comunque di un quadro strategico complessivo. Le false rivoluzioni in politica non potevano non trovare il loro corollario nell" altrettanto falso nuovo corso dei neofiti del libero mercato, anch"essi spinti alla ribalta in maniera improvvisata, finalmente liberi dalla pastoie della politica e in grado di buttare a mare tutto quanto odorasse di intervento statale nell"economia. Pur di fare tabula rasa del vecchio sistema dei partiti e delle sue innegabili connivenze con l"economia di Stato, sono stati trascurati o tenuti in nessun conto gli “effetti collaterali” prodotti dalla invocata gestione privatistica delle reti e dei servizi pubblici, dalle telecomunicazioni, all"energia, alle autostrade.

Ci siamo perciò tenuti per anni un Franco Tatò all"Enel che ha preferito investire nella telefonia piuttosto che nella rete elettrica ed un Vittorio Mincato all"Eni che ha preferito distribuire dividendi agli azionisti piuttosto che investire nella rete del gas. Ed ora si fanno i conti con i mancati investimenti nella rete autostradale e in quella Telecom. Come a dire che tutti si sono precipitati nel business sicuro dei servizi amministrati con prezzi e tariffe regolati e nessuno si è preoccupato degli investimenti sulle reti di interesse pubblico.

E" facile per Prodi irridere il capitalismo italiano che non è stato all"altezza della situazione, ma in parallelo andrebbe fatta una franca autocritica sui processi di privatizzazione da lui stesso avviati. Poteva andare diversamente? Certamente sì, bastava che la politica non si ritraesse di fronte alla retorica del mercato e si prendesse le sue responsabilità. Se l"avesse fatto in tempo non sarebbe costretta a rincorrere ed arrancare, come sta succedendo a proposito di Telecom, nel tentativo di affermare un suo improbabile primato almeno sul destino della rete telefonica.

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