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Public Policy

False soluzioni contro un problema reale

L’illusione del protezionismo

Non è utile né intelligente imporre dazi alla Cina. Bisogna sviluppare nuove produzioni

di Enrico Cisnetto - 23 maggio 2005

La guerra commerciale tra Europa e Cina, oltre che rivelarsi inutile per chi l’ha dichiarata, rischia di trasformarsi in una grande, pericolosa, illusione per il capitalismo italiano. Infatti, nella malaugurata ipotesi in cui Bruxelles dovesse davvero applicare i dazi ai prodotti tessili cinesi – speriamo che la mossa di Pechino di tassare l’export di 74 suoi prodotti blocchi la decisione – a rimetterci sarebbe proprio l’Ue, e in particolare il nostro Paese e la Francia. Cioè le due aree del continente dove sono concentrate le imprese tessili, dalle quali si sono levati pressanti appelli al protezionismo. Bloccare l’arrivo delle merci da Pechino, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, sarebbe una soluzione provvisoria che darebbe respiro all’industria europea solo per un breve lasso di tempo. Ammesso, e non concesso, che la politica protezionistica blocchi effettivamente le importazioni, non farebbe altro che rimandare il problema della sopravvivenza di un comparto “povero” che non può reggere comunque la concorrenza asiatica, a un domani neanche troppo lontano. I dazi, infatti, darebbero l’illusione che, bloccata la concorrenza cinese, il tessile europeo, e italiano in particolare, possa continuare a svolgere un ruolo da protagonista nel mercato. Sarebbe come spingere un treno che viaggia su un binario morto, anziché orientarsi verso attività diverse e più competitive.

Non si tratta di farne una questione ideologica: se il venir meno alle tradizioni liberiste del mercato europeo, dove tutte le merci godono dell’uguale diritto di scambio, servisse davvero, sarei il primo a non scandalizzarmi. Il fatto è che, da un lato si pretende di fermare un processo inarrestabile, e dall’altro si pongono le basi per una rottura dei rapporti commerciali con un paese che ha 100 milioni di “ricchi” pronti a comprare il made in Italy (il made in France sta già facendo faville) se solo saremo capaci di venderlo. E una guerra a suon di dazi, per di più inutili, non è davvero il modo migliore di farlo.

Si dice: gli Stati Uniti lo fanno. Ma il paragone tra Ue e Usa è improprio, e ancor meno funzionerebbe per l’Italia. Washington è un forte importatore di prodotti cinesi. Il deficit della bilancia commerciale americana dipende in larga misura dal made in China, soprattutto per quei prodotti – a cominciare dal tessile-abbigliamento – che le imprese americane non fabbricano più dagli anni Novanta. Dunque l’esigenza di controllare le importazioni cinesi non è di natura protezionistica, ma finanziaria. Senza contare che in questo modo l’amministrazione Bush ha voluto mostrare i muscoli non tanto ad un protagonista emergente dello scenario commerciale, quanto alla potenza politica e militare con cui rimangono diversi punti di attrito. Non per nulla tra Cina e Usa resta aperto il contenzioso monetario della rivalutazione del renminbi. Questione finora estranea ai rapporti tra Bruxelles e Pechino.

Anzi, l’Ue potrebbe sfruttare l’occasione creata dagli spazi lasciati liberi dagli Stati Uniti, muovendosi con le sue aziende, per la prima volta compatta, alla conquista del mercato cinese. Partendo dal presupposto che il nostro problema non la Cina che invade l’Occidente con i suoi prodotti, ma l’Unione che tarda a ristrutturare il proprio capitalismo, abbandonando i settori maturi e investendo in quelli dove la Cina arriverà fra dieci anni.

Pubblicato sul Messaggero del 22 maggio 2005

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