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Non servono nuovi spettri e inutili allarmismi

L’Europa si desti

Come in passato, la sconfitta diventi un’occasione per raddrizzare la schiena

di Alessandra Servidori - 03 giugno 2005

In troppi in Italia – e ciò che più stupisce, autorevoli commentatori – hanno una memoria storica piuttosto indebolita e molto condizionabile dagli eventi.
Giudizi devastanti hanno accompagnato il risultato della tornata referendaria nella quale gli elettorati di Francia e Olanda si sono pronunciati in maniera netta contro la ratifica della Costituzione europea. Ma in democrazia il popolo è sovrano anche quando sbaglia. Tocca ai Governi prendere atto di questo voto e adottare le contromisure necessarie, specie nel campo dell’economia e dei mercati finanziari, perché lì – non altrove – si avvertiranno le reazioni al disordine istituzionale della Ue. Anche le situazioni traumatiche e le sconfitte, se ben interpretate, possono trasformarsi, però, in occasioni per andare avanti.

Il 30 agosto del 1954, l’Assemblea nazionale francese, con un voto largamente trasversale, bocciò il trattato che istituiva la Ced (Comunità europea di difesa), che rappresentava, in quella particolare fase storica, una scelta forte nel cammino verso l’unità politica. Il contraccolpo fu avvertito in tutto il Continente e nel più vasto scenario internazionale. Anche allora venne evocata la fine della neonata prospettiva europea, ma appena tre anni dopo fu stipulato il trattato di Roma che dette inizio ai processi di integrazione economica dai quali derivò l’Unione a 25 paesi di oggi. Non è il caso, dunque, di piangersi addosso più di tanto se non fosse per lo spettacolo desolante rappresentato da una parte consistente della nostra classe politica, la quale agisce e commenta come se domenica scorsa, Oltralpe, gli elettori avessero dato nuovamente l’assalto alla Bastiglia. Ovviamente non è il caso di prendersela con Fausto Bertinotti, il quale si è inventato un avversario da combattere e sconfiggere: una Costituzione inopinatamente definita liberista ancorché sia stata copiata, parola per parola, dalla Carta di Nizza del 2000 (promossa dalla presidenza francese allora di turno). In verità, si tratta di un documento così ridondante di prerogative e diritti da somigliare piuttosto ad una piattaforma sindacale che ad un atto diplomatico. A parte il ministro degli Esteri Gianfranco Fini, il quale non si era accorto del fatto che, con l’ingresso dei nuovi paesi, le risorse utilizzate per combattere l’esclusione sociale sarebbero state redistribuite, la nostra meraviglia (il personaggio non finisce mai di stupirci) è riservata tutta all’ineffabile vice presidente del Consiglio Giulio Tremonti, il quale – rimuovendo completamente la circostanza che l’Italia nei momenti decisivi del trattato neocostituzionale aveva la responsabilità della presidenza della Unione – continua a deliziarci con espressioni di neocolbertismo applicato: l’origine dei mali italiani sta tutta a Bruxelles, nell’adozione dell’euro, nella scelta di accelerare l’allargamento e, in conclusione, nella stramaledetta concorrenza cinese. Come se non bastasse, alcuni quotidiani vicini alla maggioranza stanno conducendo una campagna irresponsabile all’insegna del “ridateci la lira”. E’ la solita scorciatoia della “caccia all’untore”: si cercano risposte semplici, allo scopo di dare in pasto all’opinione pubblica dei nemici, a cui imputare la nostra incapacità di capire e risolvere i problemi. Quale è la ricetta dei nuovi eurosettici?
Vogliono rimettere le mani sulla moneta per poter ricorrere nuovamente alla pratica delle “svalutazioni competitive”? Si propongono forse di tornare a quelle politiche di deficit spending che hanno regalato ai nostri figli un carico di debito pubblico che angustierà il loro futuro? Intendono ripristinare i dazi sulla produzione cinese, anche a costo di rinunciare per sempre alla penetrazione in un mercato che già adesso ha un numero di potenziali consumatori di prodotti di livello europeo più elevato di quanti non ve ne siano in Europa? E, di grazia, che colpa ha la moneta unica – la quale ha garantito stabilità e consentito all’Italia di non essere travolta dai marosi economici degli ultimi anni – nel declino dell’apparato produttivo del paese?

Ci ha pensato Antonio Fazio a ricordare ad una classe dirigente sorda, con la testa infilata nelle urne elettorali (come ha affermato Luca di Montezemolo), che “i primi segnali della difficoltà competitiva del nostro settore industriale si sono manifestati nella seconda metà degli anni novanta”. Tra il 1995 e il 2000 l’incremento della produttività totale dei fattori del settore manifatturiero è stato pressoché nullo; tra il 2000 e il 2004 la produzione industriale è diminuita del 3,8%. La competitività nei confronti dell’estero si conferma come il punto di nostra maggiore debolezza. Tra il 2000 e il 2004 – è sempre il Governatore a parlare – lo sviluppo della domanda mondiale di beni è stato, in termini reali, del 20%. Le nostre vendite all’estero nel 2004 sono risultate inferiori a quelle del 2000. La quota sul mercato mondiale, pari al 4,6% nel 1995, è scesa, calcolata a prezzi costanti, al 2,9% l’anno scorso. Da una situazione siffatta non si esce rinchiudendosi in una logica di autarchia europea (o, peggio, nazionale), ma accettando apertamente le sfide. Solo gli struzzi sono convinti di potersi sottrarre ad una realtà che crea loro dei problemi, nascondendo la testa sotto la sabbia.

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