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Tecnologie e mercato i punti fondamentali

L’Europa dell’est non piace più

Le “nuove” delocalizzazioni vanno tutte verso l’Asia. E anche le “vecchie” si riorientano

di Enrico Cisnetto - 20 febbraio 2006

Addio sogni di gloria. Dopo solo pochi anni, la delocalizzazione lascia l’Europa dell’Est per dirigersi verso l’Asia e i paesi ex-Urss. Il vento è cambiato, e quella che sembrava una scelta strategica irreversibile per molte imprese italiane appare oggi – grazie ai ritmi della globalizzazione e allo sviluppo tecnologico – già piuttosto retrograda. A farne le spese è anzitutto il tessuto produttivo del Nord-Est, che copriva la metà degli investimenti italiani in Romania, Eldorado per le imprese a caccia di manodopera a basso costo, e che ha fatto da battistrada in quasi tutti gli altri paesi ex comunisti. Per esempio, molti di quegli industriali trevigiani che erano sbarcati a Timisoara, facendola diventare quasi una colonia, stanno smontando i loro insediamenti. Così come hanno cominciato ad allontanarsi le multinazionali: l’Ibm – che era diventata la sesta maggior azienda dell’Ungheria – ha chiuso i battenti e si è spostata in Cina; la Philips l’ha imitata a stretto giro di posta, e l’americana On Semiconductor, installatasi nella Repubblica Ceca, si è riposizionata in Malaysia. C’è da scommettere che in poco tempo anche molti altri si affretteranno a seguire questi esempi, perché siamo ormai lontani da quel 70% di aumento dell’afflusso di capitale privato nella zona del “lontano” 2004. Ormai è iniziata la parabola discendente.

Ma perché quello che sembrava un “paradiso produttivo”, per la sua manodopera a basso costo e per le condizioni favorevoli create dai governi locali, in poco tempo è diventato un luogo da cui fuggire? Di certo c’è l’attrazione del Bric, cioè i quattro grandi paesi (Brasile, Russia, India e Cina) che per Goldman Sachs si avviano a diventare protagonisti della scena economica globale. Ma nella crisi dell’Est Europa come area di delocalizzazione c’è necessariamente dell’altro. Anzitutto, il sogno dell’Europa Occidentale di fare dell’Est la sua Cina è naufragato nel momento in cui si è deciso il frettoloso e intempestivo allargamento dell’Ue a 25, che ha fatto inevitabilmente lievitare il costo del lavoro di quei paesi di quel tanto che è bastato a rendere più conveniente la pur distante Asia. Al contrario, Bruxelles avrebbe dovuto chiedere, in cambio di un futuro ingresso nella Ue, la certezza di salari competitivi con quelli asiatici, almeno per un certo periodo di tempo. Ora, invece, la naturale tendenza all’omogeneizzazione, ridurrà sempre di più i divari di natura economica in seno all’Unione, a danno tanto della vecchia Europa come della nuova.

Ma c’è un altro motivo altrettanto significativo che fa dei paesi del Bric un polo d’attrazione irresistibile per qualunque produzione: non offrono solo basso costo del lavoro. Soprattutto in Cina e in India si registra un’evoluzione tecnologica di prima qualità, che sta portando quei paesi a detenere nuove leadership mondiali, nell’ingegneria informatica come nelle telecomunicazioni. Un’azienda europea che sbarca in “Cindia” trova il combinato disposto di bassa manodopera e alta tecnologia, oltre che mercati in espansione con la conseguente possibilità (a breve) di riversare direttamente in loco parte delle merci prodotte.

Basso costo del lavoro, avanguardia tecnologica, mercati in espansione: e ci meravigliamo se loro diventano il centro del mondo e noi la periferia?

Pubblicato sul Messaggero del 19 febbraio 2006

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