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Da berlusconiano a principe dei detrattori

L’epopea politica di Diego Della Valle

Sullo sfondo la sfida Berlusconi-D’Alema e i rapporti con i “furbetti del quartierino”

di Davide Giacalone - 23 marzo 2006

Diego Della Valle è stato fra i sostenitori politici di Silvio Berlusconi, poi ha cambiato idea e ne è divenuto detrattore. Legittima la prima, ed anche la seconda. Si trovava al vertice della Confindustria ed una certa pubblicistica lo accomunava a Luca Cordero di Montezemolo e a Marco Tronchetti Provera. I primi due avevano più di una connotazione che li rendeva vicini al centro destra: Della Valle anche finanziatore, mentre a Montezemolo fu offerto, da Berlusconi, un ministero. Tutti e tre siedono, e reggono, il patto di sindacato che governa il Corriere della Sera. Dopo che, nel 2001, il centro destra aveva vinto le elezioni, essi decisero di licenziarne il direttore, Ferruccio De Bortoli, per portare al suo posto Stefano Folli. La redazione scioperò, giacché lo considerava troppo sensibile ai desideri del governo (o della “destra”, a seconda dei gusti).

Mettere questi signori a capo della “sinistra”, come si vede, non è cosa del tutto sensata. Ed il fatto che oggi i più schierati a sinistra calzino le Tod’s è cosa elegantemente curiosa, essendo Della Valle un bravo imprenditore, che ha puntato tutto sul lusso, e le cui scarpe costano un occhio della testa. Questo settarismo pedestre, oltre tutto, ha fatto dire ad esponenti della destra che essi butteranno le Tod’s e calzeranno le Clarks (che noi ricordavamo de sinistra, ivi compresa la citazione di Francesco Guccini: “ … non piango, ma compro le Clarks”). Allora, cosa è successo?

Per capire si devono tenere insieme diversi elementi, non affidarsi ad una chiave che apra tutto. Intanto il governo ha mal gestito il rapporto con la stampa, omettendo di rispondere, seriamente e nel merito, alle critiche, facendo spallucce da una parte e pretendendo appoggi dall’altra. Ha sbagliato, e così facendo ha indebolito i propri amici. Per costruire politica occorre lavorare nell’arte della convinzione, e non solo nel mese (anno, purtroppo) delle elezioni.

Ma l’aspetto sostanzioso è un altro, e riguarda la guerra di potere apertasi nel mondo economico e bancario. Della Valle è, dell’originario terzetto confindustriale, il più piccolo, ma anche il più padrone di se stesso (con la famiglia). Montezemolo e Tronchetti Provera assai meno, visto che sia Fiat che Telecom Italia dipendono dalle banche, avendo un debito altrimenti ingestibile. Questa semplice verità non la troverete mai scritta sui giornali che fanno capo a quel patto di sindacato, a quel mondo, così sapete anche perché ci tengono tanto ad avere dei giornali. Fino a prima della scorsa estate Confindustria si è tenuta su una posizione non schierata, cosa resa ancora più significativa dal fatto che la maggioranza interna, quella che in politichese è detta la “base”, nutre simpatie per il centro destra e diffidenze per il centro sinistra e per Romano Prodi. Poi è scoppiato il finimondo, nel quartierino e fuori. All’ombra di un’apparente calma c’era chi si muoveva per ribaltare gli equilibri di potere. Gente improbabile comperava pacchi di azioni e diceva di volere scalare il Corriere della Sera, muovendosi in cordata operativa con il Chicco Gnutti dell’Opa su Telecom (gli amici di D’Alema), con la Unipol di Consorte (gli amici di D’Alema), e con la Antonveneta di Fiorani. Quest’ultimo porta al gradino superiore, dove siede in solitudine Antonio Fazio. Ma il governatore della Banca d’Italia avrebbe fatto ben prima una brutta fine se non avesse avuto a disposizione coperture efficienti. Anche perché al ministero dell’economia sedeva un signore, Giulio Tremonti, che gli stava in cagnesco. Messo alle strette Berlusconi licenziò Tremonti, lo stesso Berlusconi che, con Mediaset, aveva una partecipazione nella Hopa di Gnutti. Se per leggere questi fatti s’inforcano gli occhiali dello scandalismo in servizio permanente si fa una gran caciara, ma ci si capisce poco. Se, invece, si prova a leggerne l’aspetto politico si nota che (scusate la banalizzazione, ma devo puntare a chiudere) il gruppo di Berlusconi e quello di D’Alema si stavano dicendo molte cose. Non tutte gradite al capitalismo senza capitali, agli imprenditori senza rischio, ai modernizzatori senza mercato. E, tu guarda i casi della vita, quando Mieli decide di dare l’affondo non si limita a dire che Berlusconi dovrebbe essere rimandato a casa, ma aggiunge che dovrebbe andarci anche D’Alema. Berlusconi va in Confindustria e fa il numero che tutti conoscono, ristabilendo la realtà degli equilibri interni. Della Valle gli dà sulla voce, dimostrando di avere qualche cosa da dire e di volerlo dire. Montezemolo e Tronchetti Provera se ne stanno zitti. E solo una politica demente riesce a rubricare tutto ciò nell’interessante diatriba su quali zoccoli infilare.

www.davidegiacalone.it

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