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I rischi di un uso distorto della democrazia

L’epilogo pugliese

Se alla fine le “primarie all’italiana” affondano il Pd

di Enrico Cisnetto - 01 febbraio 2010

Maneggiare con cura. Il “caso Puglia” ci ricorda che la democrazia è cosa troppo seria, delicata e preziosa per potersene permettere un uso meno che accorto. A chi ha sottolineato l’anomalia dell’uso delle primarie per scegliere il candidato del Pd, è stato ribattuto che non c’è nulla di meglio che consultare democraticamente la base elettorale per scegliere il proprio candidato ad una qualsiasi elezione. Vero, teoricamente. Ma a parte il fatto che allora non si capisce perché il criterio non sia stato adottato ovunque, in modo uniforme e condiviso, ci sono almeno due ordini di motivi per cui questa scelta si è invece rivelata una sciagura.

Il primo riguarda le modalità dello strumento primarie, ed è questione che si era già manifestata nelle precedenti occasioni – la scelta di Prodi candidato per le politiche 2006 e quelle di Veltroni e Bersani per la segreteria del Pd – negli stessi identici termini: la mancanza di regole che diano certezza di trasparenza a votazioni e scrutini. Bastava copiare modalità e regole americane, ma si sono inventate le primarie all’italiana, dove chiunque si presenti ai seggi e dichiari in autocertificazione di essere un elettore del Pd può votare, e magari anche più volte.

E se sono opache le modalità a monte (il voto), figuriamoci i controlli a valle (lo scrutinio). Ma questo problema viene reso relativamente marginale dalla seconda delle questioni, più decisamente politica: la cultura dei votanti. Se classi dirigenti deboli, per non dire inette, per anni lasciano crescere nel proprio “popolo” idee, parole d’ordine, logiche di stampo populista e giustizialista – e queste sia a destra che a sinistra – cui si aggiunge da una parte il giacobinismo e dall’altra il particolarismo localista con venature di razzismo, poi sarà difficile che da una consultazione di base emerga qualcosa di diverso dal demagogo più demagogo degli altri.

Qualcuno ha già detto, e io sono d’accordo, che se De Gasperi avesse chiesto alla base Dc cosa bisogna fare con i comunisti gli avrebbero risposto “mettili fuorilegge” e che se Togliatti si fosse peritato di sapere cosa pensavano gli iscritti del Pci dell’articolo 7 della Costituzione, il Concordato non si sarebbe mai firmato. La democrazia è sacrosanta, ma va maneggiata con cura perché ci vuole poco per fare nel suo nome i peggiori dei guai.

Si dirà: ma le primarie sono patrimonio solo del centro-sinistra, Berlusconi non si è mai sognato di utilizzarle. Vero. Tuttavia non meno pernicioso di quello delle “primarie all’italiana” è il sistema di selezione (si fa per dire) dei candidati del Pdl, che non a caso produce classe dirigente di serie C, anche e soprattutto a livello locale.

Dunque, se da una parte c’è un uso distorto della democrazia, dall’altro c’è l’esaltazione della concezione leaderistica della politica, in base alla quale una ristretta oligarchia – quando non il solo capo e basta – decide chi scegliere. Scelta che nel caso del Pdl di solito risponde a criteri di “vendibilità” del “prodotto candidato”, in primo luogo la telegenicità e la notorietà già acquisita al di fuori della politica. Con il risultato che la nomenclatura proveniente dal partito è selezionata sulla base della fedeltà, mentre dall’esterno si pescano imbonitori e “personaggi” conosciuti. Due modalità diverse, come si vede, ma convergenti negli effetti che producono: la formazione di una classe dirigente mediocre.

Tuttavia, una differenza c’è: mentre il centro-destra è sempre stato privo di una cultura di governo, sia essa amministrativa che centrale, e quindi la selezione per via oligarchica dei suoi rappresentanti appare consustanziale al suo modo di essere – tanto che chi, come l’Udc, non ha più sopportato questa deriva ha scelta la strada dell’autonomia – nel centro-sinistra la componente riformista avrebbe motivo di emanciparsi dalla pratica populista delle primarie. E proprio la vicenda pugliese lo dimostra. Peccato però che nessuno si sia ribellato fino in fondo, per cui il combinato disposto tra la scelta di partecipare con Boccia alla consultazione e l’endorsement di Bersani ha rappresentato non solo una sconfitta di D’Alema, del segretario del partito e della componente moderata, ma il fallimento di una politica.

L’apoteosi di Vendola e la conferenza stampa che Bersani è stato costretto a fare con Di Pietro il giorno dopo l’incoronazione del candidato ex Rifondazione, suggellano sì la crisi del Pd, ma quel che è peggio certificano quella ormai irreversibile della sinistra riformista, sia essa di derivazione Ds che Margherita. E far finta che non sia così probabilmente ne rappresenta l’epilogo finale.

Pubblicato da Liberal

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