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A rischio una filiera, quella della carne suina italiana

L’ennesima influenza mediatica

Il vero problema, semmai, è come scongiurare il diffondersi della psicosi

di Enrico Cisnetto - 29 aprile 2009

Il problema non è se chiamarla “influenza suina” o “nuova influenza”, come hanno deciso ieri le autorità europee pensando di evitare così un crollo del consumo di carne di maiale. Il problema, semmai, è come scongiurare il diffondersi della psicosi, come invece fu nel 2001 per la mucca pazza e nel 2005 per l’aviaria, più forte di qualunque antivirus e capace di produrre danni economici non meno gravi di quelli sanitari.

Così, ben vengano le rassicurazioni che sono arrivate nelle ultime ore da tutti i protagonisti del settore, da Confagricoltura all’Assica, l’associazione che raduna tutti gli imprenditori dei salumi italiani, in un coro unanime: non importiamo carni dalle aree incriminate, e i prodotti italiani – che per la maggior parte godono pure della certificazione di origine protetta, la Dop – sono sicuri al 100%. Ma, ancor prima, basterebbe aver letto quanto Oms e Istituto superiore di Sanità hanno detto fin dal primo momento: quest’influenza non si prende mangiando carne suina, si prende (forse) in seguito a contatti ravvicinati con persone che sono nel periodo di contagiosità. L’Organismo internazionale della sanità animale (Oie) ha ribadito, da parte sua, di chiamarla “influenza nordamericana”, perché nulla ha a che fare col consumo di carni suine.

Eppure, anche questa volta, dopo la mucca pazza e dopo l’aviaria, la psicosi collettiva si diffonde a macchia d’olio, e rischia di colpire in particolare una filiera, quella della carne suina italiana, che è sottoposta sempre più alla concorrenza internazionale (spesso sleale) ed è sempre più dipendente dalle importazioni dall’estero, fattori che continuano a penalizzare i redditi degli allevatori, erodendo i margini di guadagno e mettendo in crisi un settore che rappresenta uno dei fiori all’occhiello del made in Italy. Certo, va detto che finora un crollo verticale non c’è stato, e anche le quotazioni per il momento reggono.

Ma tutto questo s’inserisce in un momento di mercato che ha visto una diminuzione del 30% dei prezzi negli ultimi quattro mesi. Gli allevatori, dunque, incrociano le dita, e sperano che non si verifichi ciò che è successo nelle precedenti due altre grandi pandemie: nel caso dell’aviaria, il panico si diffuse immediatamente tra i consumatori, portando in pochi mesi un tonfo verticale dei consumi di pollo (-70%) e danni per i produttori italiani per 500 milioni di euro.

Nel 2001, con il caso della “vache folle”, le perdite furono ancora più disastrose, arrivando a quota 2 miliardi. Naturalmente, non c’è solo chi ci perde: in molti, da queste psicosi, ci guadagnano, in particolare le case farmaceutiche, non a caso in queste ore sugli scudi in tutte le Borse mondiali. Basta ricordare il clamoroso caso del Tamiflu, il farmaco anti-aviaria che portò Roche a guadagnare miliardi, quando in molti erano convinti che fosse l’unico trattamento in grado di scongiurare l’aviaria.

Peccato che secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, si trattasse di un normalissimo farmaco antinfluenzale la cui efficacia non era nemmeno scientificamente provabile, come del resto non era provabile che esistesse financo lo stesso virus della malattia. Ma la psicosi anche allora fu più forte, nonostante i dati mostrassero ben presto che il panico non era correlato alla reale gravità della “pandemia”: l’aviaria fece alla fine 350 morti in tutto il mondo, a fronte della strage di pennuti colpiti dal morbo (180 milioni).

La mucca pazza, quattro anni prima, fermò il suo bilancio a quota 139. Oggi, la “suina” ha registrato 150 vittime. Certo, un numero che desta comunque preoccupazione, ma che non spingerebbe al terrore generalizzato se si confrontasse con altre “stragi silenziose” che non vanno sui giornali, come, per esempio, i 514 morti per gli incidenti in moto all’anno in Italia o i 25 in media per incidenti d’auto ogni weekend. O ancora, alle 36.000 vittime che l’influenza – quella normale – fa ogni anno nel mondo.

Eppure, questi e altri esempi, così come le precedenti esperienze dell’aviaria o della mucca pazza, evidentemente non insegnano nulla. Oggi, anzi, il contagio si diffonde ancora più velocemente a causa di un’informazione sempre più globalizzata e a nuovi media come Facebook e Twitter, che, essendo “dal basso”, diffondono inopinatamente le paure dei loro associati. Proprio su Twitter, si stima che in questi giorni il 2% di messaggi istantanei riguardi proprio ingiustificati allarmi sulla nuova forma di influenza “suina”: allarmi che non hanno alcuna base scientifica. Ma, si sa, contro la psicosi non c’è nulla da fare. Perciò, è inutile chiamarla “suina”, o “nuova” o “nordamericana”. Si tratta, semplicemente, di “influenza mediatica”. L’ennesima.

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