La linea del rigore ci ha evitato la catastrofe
L’asso nella manica del “Tremonti ter”
Che la “manovrina” porti molto denaro da spendere nelle casse del Tesorodi Enrico Cisnetto - 26 giugno 2009
Una buona notizia: salvo sorprese, oggi il consiglio dei ministri dovrebbe approvare una manovra di sostegno all’economia per un totale di 2 miliardi di euro. Non sappiamo ancora esattamente cosa conterrà il decreto che il ministro Tremonti sta preparando, ma le indiscrezioni della vigilia sono incoraggianti. In particolare, la detassazione degli utili reinvestiti in azienda – con limiti che evitano alcuni abusi del passato – la definizione di incentivi alle imprese che innovano e la velocizzazione dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni ai suoi fornitori, da sole sono misure che già meriterebbero un giudizio più che lusinghiero.
Anche perché rappresenterebbero il giusto approccio alla necessità di agire sul lato dell’offerta, visto che in questo periodo – con i consumatori che giocano sulla difensiva, anche quando non ce ne sarebbe motivo, come nel caso dei percettori di reddito fisso che negli ultimi mesi hanno incrementato il loro potere d’acquisto – un po’ tutti i tentativi di spingere la domanda rischiano di rivelarsi poco o per nulla incisivi.
Insomma, quello che è già stato definito il “Tremonti ter” non si presenta come un contentino alla Confindustria, che in questi mesi si è mostrata amica del Governo anche quando dalla base saliva il mugugno, ma la risposta giusta – stante i limiti imposti dalle condizioni della finanza pubblica – alla recessione in atto.
Semmai, in attesa di spulciare i singoli provvedimenti, la domanda è se sia sufficiente. Naturalmente, sarebbe facile rispondere di no: altri hanno speso cifre ben maggiori per fronteggiare la crisi, e per di più la caduta del nostro pil alla fine dell’anno non sarà meno di cinque punti percentuali (non a caso Tremonti nel nuovo Dpef ha scritto -5%), ai massimi Ocse con Germania e Giappone.
Ma è pur vero che sono le “condizioni date” ad aver suggerito una saggia prudenza. Secondo l’Fmi, nel periodo 2007-2014 (cioè prima e dopo crisi) il debito pubblico delle 10 principali economie che sono rappresentate nel G20 salirà del 46%, dal 78% al 114% del pil, nello scenario più ottimistico, e raddoppierà (al 150%) in quello più pessimistico. Invece, il debito italiano – già altissimo tanto da essere il terzo del mondo pur non corrispondendo alla terza economia mondiale – cresce, sì, ma in misura decisamente più contenuta.
Questo significa che la linea del rigore voluta da Tremonti – gliene va dato atto – ci ha evitato la catastrofe finanziaria, che è certamente peggio di una pur grave recessione. Quindi, se si misurano con questo metro i provvedimenti che oggi dovrebbero essere varati, anche i 2 miliardi che saranno messi in campo non debbono essere giudicati peanuts.
Altro discorso, invece, è ragionare se le “condizioni date” siano una disgrazia che ci dobbiamo portare dietro per forza, o se al contrario debbono e possono essere messe in discussione. E qui il riferimento d’obbligo è alle cosiddette riforme strutturali.
Lo stesso ministro dell’Economia, parlando all’assemblea della Confcommercio, pur mettendo in evidenza una maggiore propensione a credere che sarà la ripresa della domanda internazionale a tirarci fuori dalle secche recessive, non ha negato l’opportunità di ragionare su alcune voci della spesa pubblica.
Per parte mia – e chi mi legge da tempo lo sa – ho sempre sostenuto la necessità di spostare quote significative di spesa corrente agli investimenti, convinto come sono – e da ben prima che il “mercatismo” passasse di moda – che solo lo Stato sia in grado di fare certe infrastrutture e sostenere l’onere di radicare il Paese lungo certe direttrici di sviluppo.
Così facendo si potrebbero mettere in gioco ben altre risorse rispetto a quelle che una gestione oculata della finanza pubblica ci ha fin qui consentito di spendere. Tuttavia, fintanto che non si siano create le giuste circostanze per un significativo cambiamento delle “condizioni date”, la modalità del “spendere poco e bene” appare un comprensibile modo di procedere.
E per “giuste circostanze” s’intende prima di tutto un quadro politico adatto alle riforme. Cosa che fin qui è mancata. Da un lato, per il persistere di quel “bipolarismo muscolare” che tante volte ho denunciato da questa tribuna, e che non consente di condividere la responsabilità di scelte impopolari ma necessarie.
Dall’altro, per la latitanza del presidente del Consiglio, che dopo aver rivendicato una forma seppur surrettizia di presidenzialismo (almeno rispetto alla Costituzione vigente), poi non ha saputo comportarsi di conseguenza assumendosi l’onere delle grandi decisioni.
Nell’attesa delle riforme, non ci rimane che sperare che Tremonti riesca nell’impresa di realizzare al più presto il nuovo “scudo fiscale” e che, tra aliquota più alta rispetto alla volta precedente (si parla del 5%-7%) e fuga dai paradisi fiscali per via della lotta contro di essi, la manovra porti molto denaro nelle casse del Tesoro. Da spendere, anche questo, nel più breve tempo possibile.
Anche perché rappresenterebbero il giusto approccio alla necessità di agire sul lato dell’offerta, visto che in questo periodo – con i consumatori che giocano sulla difensiva, anche quando non ce ne sarebbe motivo, come nel caso dei percettori di reddito fisso che negli ultimi mesi hanno incrementato il loro potere d’acquisto – un po’ tutti i tentativi di spingere la domanda rischiano di rivelarsi poco o per nulla incisivi.
Insomma, quello che è già stato definito il “Tremonti ter” non si presenta come un contentino alla Confindustria, che in questi mesi si è mostrata amica del Governo anche quando dalla base saliva il mugugno, ma la risposta giusta – stante i limiti imposti dalle condizioni della finanza pubblica – alla recessione in atto.
Semmai, in attesa di spulciare i singoli provvedimenti, la domanda è se sia sufficiente. Naturalmente, sarebbe facile rispondere di no: altri hanno speso cifre ben maggiori per fronteggiare la crisi, e per di più la caduta del nostro pil alla fine dell’anno non sarà meno di cinque punti percentuali (non a caso Tremonti nel nuovo Dpef ha scritto -5%), ai massimi Ocse con Germania e Giappone.
Ma è pur vero che sono le “condizioni date” ad aver suggerito una saggia prudenza. Secondo l’Fmi, nel periodo 2007-2014 (cioè prima e dopo crisi) il debito pubblico delle 10 principali economie che sono rappresentate nel G20 salirà del 46%, dal 78% al 114% del pil, nello scenario più ottimistico, e raddoppierà (al 150%) in quello più pessimistico. Invece, il debito italiano – già altissimo tanto da essere il terzo del mondo pur non corrispondendo alla terza economia mondiale – cresce, sì, ma in misura decisamente più contenuta.
Questo significa che la linea del rigore voluta da Tremonti – gliene va dato atto – ci ha evitato la catastrofe finanziaria, che è certamente peggio di una pur grave recessione. Quindi, se si misurano con questo metro i provvedimenti che oggi dovrebbero essere varati, anche i 2 miliardi che saranno messi in campo non debbono essere giudicati peanuts.
Altro discorso, invece, è ragionare se le “condizioni date” siano una disgrazia che ci dobbiamo portare dietro per forza, o se al contrario debbono e possono essere messe in discussione. E qui il riferimento d’obbligo è alle cosiddette riforme strutturali.
Lo stesso ministro dell’Economia, parlando all’assemblea della Confcommercio, pur mettendo in evidenza una maggiore propensione a credere che sarà la ripresa della domanda internazionale a tirarci fuori dalle secche recessive, non ha negato l’opportunità di ragionare su alcune voci della spesa pubblica.
Per parte mia – e chi mi legge da tempo lo sa – ho sempre sostenuto la necessità di spostare quote significative di spesa corrente agli investimenti, convinto come sono – e da ben prima che il “mercatismo” passasse di moda – che solo lo Stato sia in grado di fare certe infrastrutture e sostenere l’onere di radicare il Paese lungo certe direttrici di sviluppo.
Così facendo si potrebbero mettere in gioco ben altre risorse rispetto a quelle che una gestione oculata della finanza pubblica ci ha fin qui consentito di spendere. Tuttavia, fintanto che non si siano create le giuste circostanze per un significativo cambiamento delle “condizioni date”, la modalità del “spendere poco e bene” appare un comprensibile modo di procedere.
E per “giuste circostanze” s’intende prima di tutto un quadro politico adatto alle riforme. Cosa che fin qui è mancata. Da un lato, per il persistere di quel “bipolarismo muscolare” che tante volte ho denunciato da questa tribuna, e che non consente di condividere la responsabilità di scelte impopolari ma necessarie.
Dall’altro, per la latitanza del presidente del Consiglio, che dopo aver rivendicato una forma seppur surrettizia di presidenzialismo (almeno rispetto alla Costituzione vigente), poi non ha saputo comportarsi di conseguenza assumendosi l’onere delle grandi decisioni.
Nell’attesa delle riforme, non ci rimane che sperare che Tremonti riesca nell’impresa di realizzare al più presto il nuovo “scudo fiscale” e che, tra aliquota più alta rispetto alla volta precedente (si parla del 5%-7%) e fuga dai paradisi fiscali per via della lotta contro di essi, la manovra porti molto denaro nelle casse del Tesoro. Da spendere, anche questo, nel più breve tempo possibile.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.