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Il Pdl nel caos

Ipotesi rottura

Il problema del centrodestra non è nelle persone, ma nei programmi. E nel coraggio: ce la farà Alfano a pagare il prezzo della definitiva rottura con Berlusconi e spostare quel che resta del Pdl verso un asse con l'Udc? Al di la dei sondaggi impietosi con il Cavaliere ai moderati servono nuovi spazi e nuove occasioni per ritrovarsi insieme.

di Enrico Cisnetto - 20 ottobre 2012

Cosa è rimasto e cosa rimarrà dopo le prossime elezioni del centro-destra formato Berlusconi? Sondaggi a parte, che bisognerebbe sempre evitare di consultare, sono molti i segnali che indicano un progressivo disfacimento del Pdl e della alleanza con la Lega, sottoposta prima allo stress dell’esplosione del “caso Bossi” e ora di quello del braccio di ferro tra Formigoni e Maroni in Regione Lombardia. Si tratta di un processo poco leggibile, non tanto per mancanza di trasparenza quanto perché non segue un percorso leggibile, ma pare affidato alla casualità degli avvenimenti, alla pochezza dei contenuti e alla miseria delle modalità della contesa interna. Tanto che, cosa che ha del clamoroso in un partito padronale, il nodo da sciogliere sembra essere rappresentato dal ritorno sulla scena o meno del fondatore.

Come ha giustamente notato Polito sul Corriere della Sera, al contrario di quanto avviene nel Pd, nel Pdl i “rottamatori” sono gli outsider che si battono per il ripristino della vecchia leadership, mentre i vertici apicali del partito che a Berlusconi devono tutto e che fino a ieri sono stati del Cavalier serventi, ora smaniano di giocare la partita in proprio. Insomma, assistiamo ad un “tutti contro tutti”, in cui c’è spazio persino per una polemica in cui un senatore Pdl (Raffalele Lauro) nel replicare all’invito di Daniela Santanchè ad azzerare le cariche definisce il suo partito “ridotto ad un caravanserraglio, tutto al femminile, sull’orlo di una crisi di nervi, lacerato tra improbabili rottamatrici e pseudo-salvifiche amazzoni”, che va verso “l’auto distruzione per mano di queste Erinni”.

Come vada a finire è difficile pronosticarlo. Avrà Alfano, che con Casini sembra aver stabilito un buon feeling, il coraggio di rompere gli indugi e piazzare il partito lungo la linea dell’asse con l’Udc dopo aver pagato il prezzo preventivo – inevitabile, altrimenti mancherebbe la premessa – di aver lasciato Berlusconi alle sue indecisioni? E se davvero il segretario del Pdl sacrificasse il Cavaliere sull’altare del tentativo di agganciare Casini, chi starebbe con lui e chi sotto le più protettive ali del Capo? E non avendo fatto il gran passo appena eletto segretario, adesso non rischia comunque di essere troppo tardi agli occhi di elettori sempre meno disposti a concedere patenti di credibilità?

La verità è che a mettersi in discussione per primi dovrebbero essere proprio gli italiani cosiddetti “moderati”. Il problema non è sostituire il deludente Berlusconi con qualcun altro, ma ragionare sul perché la politica semplificatoria del centro-destra – al di là del fatto che non si stata nemmeno realizzata – non sia la ricetta giusta per mettere il paese al sicuro nella tempesta della crisi. Non basta dire meno tasse e meno vincoli per costruire le condizioni di uscita da un declino strutturale che preesisteva prima della crisi mondiale e che quest’ultima ha potuto solo aggravare. L’Italia è da rivoltare come un calzino, da ricostruire dalle fondamenta, e dirsi moderati solo per distinguersi dalla sinistra – che peraltro ha una radice ultra-conservatrice, al di là degli slogan – è concettualmente sbagliato. Certo, “rivoluzione liberale” era una fascinosa parola d’ordine, ma dietro non è mai stata costruita nessuna impalcatura programmatica. E quella offerta dalla Lega, il federalismo, si è rivelata una iattura.

Dunque, più che dai leader (si fa per dire), bisognerebbe ripartire dalle idee. Qualcuno ha il coraggio di mettere in campo un programma liberal-keynesiano che sappia coniugare la modernizzazione del sistema economico (più mercato) con una politica industriale che salvaguardi gli interessi nazionali e favorisca la nascita di nuovi grandi gruppi in un capitalismo diventato asfittico (più Stato) e su questo costruire la nuova piattaforma politica di una forza che parli al ceto medio e alla borghesia produttiva, evitando di rappresentare quella parassitaria? Il fatto che ci si aspettasse che quel qualcuno fosse Renzi, la dice lunga sul vuoto che c’è nel centro-destra. Gli stessi centristi, che pure puntano giustamente alla continuità dell’esperienza Monti, devono farsi carico di un’iniziativa che finora è mancata. Anche perché quella società civile di cui tanto si parla come possibile genitrice di un nuovo soggetto capace di intercettare i voti di Pdl e Lega in uscita, evitando che finiscano a Grillo o ingrossino le fila degli astenuti, finora ha dato ben pochi segnali, e pure confusi.

Insomma, l’area cosiddetta moderata è vittima di una paralisi autodistruttrice che rischia di non dare rappresentanza elettorale, in aprile, alla maggioranza degli italiani. Mentre sulla scena scorre il film della guerra fratricida che impazza nel Pd – che puntualmente si rinnova ogni qual volta si immagina, a torto o a ragione, che la vittoria elettorale sia a portata di mano – tutti trascurano ciò che accade nel centro-destra, quasi a esorcizzare così l’eventuale ritorno in scena di Berlusconi. Ma il problema dell’Italia non è (più) lui – semmai il berlusconismo di cui è ancora intriso il sistema politico bipolare – bensì il vuoto di rappresentanza dei moderati. Che nel frattempo si sono trasformati in un esercito di incazzati.

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