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Capo dello Stato intercettato

Invece di puntare al futuro, litighiamo sul passato

Torna il gioco al massacro, mentre ci giochiamo la sopravvivenza. Unica via d'uscita: la Grande Coalizione, ma come scelta preventiva

di Enrico Cisnetto - 02 settembre 2012

Ancora una volta l’Italia volta la testa all’indietro, e si ammazza cospargendosi di “veleni”. Invece di constatare che l’emergenza economica e finanziaria non è affatto finita, proiettando sul sistema politico italiano che si prepara alle elezioni (fine novembre, febbraio o aprile che sia) una responsabilità senza precedenti, ci facciamo del male da soli inscenando un processo di delegittimazione strisciante nei confronti del Capo dello Stato che ha come contenuto intercettazioni riguardanti una vicenda di due decenni fa. Poi, non contenti, riesumiamo una mai sopita polemica sul ruolo che ebbero gli Stati Uniti nella vicenda cosiddetta di Tangentopoli. Il tutto senza aver mai avuto in questi anni la volontà, la forza e la capacità di mettere mano seriamente ai problemi giuridici e politici – complessivamente etichettabili come riforma della giustizia e del sistema di finanziamento della politica – che quelle vicende esprimono. E ora ci torniamo sopra non per dare soluzione a quei problemi, ma per tornare ancora una volta ad impostare la campagna elettorale imminente sulla delegittimazione proveniente dal passato. Sia chiaro, non si tratta di questioni marginali: sapere se ci sia stato una qualche forma di “contatto” con la mafia, e se sì perché e in quale modo, non è certo cosa banale. Oppure, non sarebbe di poco conto squarciare quel velo di ipocrisia e retorica che ha sempre circondato e coperto l’inchiesta di Mani Pulite. E più ancora, sarebbe molto utile – anche ai fini della battaglia per la sopravvivenza della nostra sovranità, sempre più limitata, che è in corso in Europa in questo momento – capire cosa sia successo a noi e alle nostre alleanze internazionali in quest’ultimo quarto di secolo, da quando con la caduta del Muro di Berlino è finita l’epoca di Yalta e dei suoi equilibri mondiali. Ma ogni cosa ha un suo tempo e delle conseguenze: oggi non è il tempo di impegnare il Paese su quelle pur importanti vicende – perché altre ben più cogenti incombono sulle nostre teste – ed è fin troppo evidente che l’intento di chi le solleva tutto è meno l’unico che le giustificherebbe. E cioè mettere mano alla sciagurata legge che regola le intercettazioni, che ha indotto i magistrati ad “ascoltare” chiunque per poi decidere se e come procedere, riducendo le indagini alla sola sbobinatura delle telefonate, e ha consentito la pubblicazione a getto continuo di segreti istruttori e conversazioni private senza alcuna rilevanza penale. O, più in generale, respingere il falso dilemma secondo cui si dovrebbe scegliere tra l’intercettare a fini di giustizia e il tutelare la privacy di ciascuno e l’integrità delle istituzioni, riaffermando solennemente che l’interesse collettivo chiede sia che s’intercetti a fini d’indagine e di prevenzione, sia che non finiscano sputtanati cittadini ancora coperti dalla presunzione d’innocenza o le cui parole siano prive di qualunque risvolto penale. Né, certo, è intendimento di chi ha acceso per l’ennesima volta il ventilatore spargendo liquami, sistemare tutto quello che non funziona nel pianeta giustizia, a cominciare da una concezione barbara del diritto, piegato agli istinti faziosi più belluini. No, non c’è nulla di tutto questo dietro questo ennesimo “torcicollo” della Repubblica. Così come non interessa per nulla ricostruire una storia ancora tutta da scrivere come quella del rapporto tra la politica e le istituzioni, da un lato, e le organizzazioni criminali organizzate (non solo la mafia), dall’altro. Così come non interessa per nulla stabilire la verità sulle degenerazioni che ebbe l’inchiesta della Procura di Milano sull’illecito finanziamento alla politica, allo stesso modo per cui a nessuno è interessato in questi anni dotare l’Italia di una moderna legge che finalmente rendesse trasparente il flusso delle risorse ai partiti (e non solo). Questo è il Paese dell’opacità, e tale rimane, segnando un ulteriore degrado della lotta politica, anche in questa circostanza. Che altra conseguenza non avrà se non gettare fango sulla sua prima e fondamentale istituzione, la Presidenza della Repubblica, proprio quando essa svolge una funzione di supplenza indispensabile nella fase (purtroppo prolungata) di decesso della Seconda Repubblica, ancorché questo abbia comportato e comporti per l’attuale inquilino del Quirinale muoversi border-line lungo la linea di confine delle sue specifiche competenze. Non so se, come sostiene Stefano Folli, “dietro” ci sia un preciso e preordinato disegno tendente a destabilizzare il vero perno intorno a cui ruota e si regge l’Italia della “transizione infinita” verso una Terza Repubblica che fatica maledettamente a nascere. O se, al contrario, siamo di fronte a “riflessi condizionati” che ormai scattano automatici, in una specie di “tutti contro tutti” in cui non vince nessuno, frutto di un decadimento culturale in cui si scambia per diritto/dovere d’informazione – come ha magistralmente scritto il presidente emerito della Corte Costituzionale, Capotosti – ciò che nel migliore dei casi è puro voyeurismo e nel peggiore è lotta politica senza più alcuna regola e senza più rispetto umano. Sta di fatto che mentre la presa speculativa dei mercati mantiene lo spread intorno ai 450 punti e non accenna a mollare, e l’eurosistema continua a trascinarsi in uno stallo che non promette niente di buono, nonostante gli sforzi di trarre motivi d’ottimismo dai tanti incontri (inutili) dei leader, noi ci giochiamo la permanenza nell’euro mettendo in croce Napolitano, usando le intercettazioni come arma di ricatto e preparandoci ad elezioni all’insegna dello spargimento di veleni, della delegittimazione reciproca e della contrapposizione permanente. Solo in un paese in decomposizione può capitare così, e così capitando la decomposizione non può che aumentare.

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