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Quarta tappa del viaggio pre-elettorale

Intervista a Fabio Cerchiai

Presidente dell’Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici

di Enrico Cisnetto - 07 marzo 2008

Quarta puntata del mio viaggio pre-elettorale tra i protagonisti dell’economia italiana. In una sera piovosa mi viene a trovare Fabio Cerchiai, numero uno dell’Ania. Memoria storica del settore – è entrato giovanissimo alle Generali percorrendone tutti i gradini, fino a quello di amministratore delegato – Cerchiai dal 2002 è alla guida dell’associazione degli assicuratori italiani, e in questo settennato ha avuto a che fare con due diversi inquilini di Palazzo Chigi, Berlusconi e Prodi. Qual è il bilancio di questi anni, e soprattutto quali sono le attese per il futuro?

La sensazione, mi racconta, è quella di una grande attesa. Chiunque andrà a sedersi sullo scranno più alto di Piazza Colonna, si troverà di fronte a un Paese con gravi e consolidate carenze. L’Italia è molto provata, le idee parecchio confuse. Per pensare ad un rilancio del Paese servirebbe almeno una diagnosi condivisa dei mali presenti e delle carenze passate. Ma la classe politica sembra incapace di guardare avanti. Certo il bilancio degli ultimi anni è scadente.

Si sono fatte poche cose, e male: basta pensare alla stagione delle liberalizzazioni. “Fatte”, mi dice, “senza aver presenti obiettivi di lungo periodo, senza consultare le parti interessate, senza considerare gli interessi delle imprese. Con un occhio di riguardo alle prime pagine dei giornali, più che al mercato. “Come costruire una ferrovia senza pensare a dove passerà, al tipo di binari e locomotive da utilizzare”. In particolare, a questo manager di lungo corso secca soprattutto il distacco, ostentato dai due precedenti governi, nei confronti del mondo della finanza. Distacco visibile nell’esecutivo Prodi, con un ministro dello sviluppo economico, Bersani, che “non ci ha mai chiesto un parere, come se temesse un’infezione da contatto”. Ma con Berlusconi non andava meglio. “Se non ci si mette intorno ad un tavolo col mondo dell’impresa e della finanza è impossibile fare seriamente le riforme”, sostiene.

Che Cerchiai sia diventato un pericoloso liberista? Assolutamente no, e anzi qui si indigna. “Guarda”, mi fa, “sinceramente io vorrei più Stato, non meno Stato. Perché solo con una presenza maggiore, e naturalmente più efficiente, della politica, si può avere un mercato in grado di funzionare meglio”. Invece la leadership è assente, confusa, tentennante.

Guardiamo al caso della “munnezza” di Napoli, simbolo stesso del degrado, finito su tutte le copertine del mondo. “E’ una cosa tremenda, è il nostro undici settembre”, mi dice. Solo che con l’attacco alle torri il nemico era esterno, mentre qui il nemico ce l’abbiamo in casa: una classe dirigente che non è stata in grado di darsi degli obiettivi e di perseguirli, e ha lasciato che la quotidianità si trasformasse in emergenza.

E quello dei rifiuti è solo la punta dell’iceberg. Secondo Cerchiai la macchina statale non è ormai più in grado di funzionare. Siamo al rovesciamento della realtà. “Guarda il sistema giudiziario”, continua, “dieci anni per ottenere una sentenza, i tribunali intasati, uno si fa sei mesi di carcerazione preventiva e poi, da condannato, esce dopo tre giorni”. Ma non solo: la débâcle delle infrastrutture, dei trasporti. Tutto questo perché lo Stato ha abdicato, ha perso la sua autorevolezza. Non si può pensare che la Tav venga bloccata per colpa della famigerata sindrome nimby (not in my backyard, non nel mio giardino).

Gli sembra che la politica abbia dimenticato negli anni che il suo compito principale non è solo organizzare il consenso – troppo facile – bensì soprattutto gestire il dissenso. “In uno Stato liberale che funzioni”, mi dice, “non deve essermi garantito il diritto di bloccare i lavori dell’alta velocità che dovrebbe sorgermi davanti casa. Devo semplicemente poter decidere in tutta libertà di trasferirmi in un altro posto. E’ l’interesse generale che deve prevalere, invece ormai ciascuno pensa al proprio particulare”.

Insomma, che fare? Cerchiai non è ottimista. Chiunque vincerà le elezioni dovrebbe avere il coraggio di lanciare un nuovo Piano Marshall per l’Italia. Dovrebbe avere la forza di predisporre un “piano industriale” serio per il Paese, con obiettivi realistici e misurabili, con un monitoraggio costante e trasparente da parte dei suoi “stakeholders”, ovvero, in primo luogo i cittadini. Se non dovesse riuscire, a casa. Ma Berlusconi e Veltroni saranno in grado? Cerchiai è scettico.

Questa campagna elettorale gli sembra molto fatta di marketing, con un centrosinistra che tende a una comunicazione del “rimosso”, mai nominando Prodi, come se non fosse mai esistito, e il centrodestra che pare fermo al 2001. Tutto questo mentre chiunque governerà si troverà di fronte a problemi maledettamente complicati. Dalle emergenze infrastrutturali domestiche a una congiuntura internazionale sempre più fosca nel segno di un inizio di recessione. Anche chi ha deciso di non entrare in questo bipartitismo forzato, e ha scelto una posizione di terzietà rispetto ai due poli, come l’Udc, rischia di essere costretto a fare solo un gioco d’interdizione, nonostante vi siano certamente figure di grande qualità tra i “non allineati”. Capisco che quello che teme il leader degli assicuratori italiani è che nessuno abbia una visione chiara delle priorità di lungo periodo.

Non è che di questo passo si finisce nel grillismo? Assolutamente no: l’antipolitica non gli piace proprio. E anzi ribatte: “facciamo tutti parte della politica. La politica siamo noi. E’ l’intero sistema che non funziona più, l’intera classe dirigente”. Alla fine della chiacchierata sono sempre più convinto che a questo Paese serve ormai una buona assicurazione sulla vita.

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