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La graduatoria della Commissione europea

Innovazione, i ritardi dell’Italia

La Borsa cresce del 14,6%, ma restiamo indietro di sessant’anni rispetto agli Usa

di Enrico Cisnetto - 16 gennaio 2006

In economia tutte le classifiche (serie) sono veritiere, ma non tutte necessariamente dicono la verità. Leggo, per esempio, che la Borsa italiana va alla grande, tanto che nel 2005 l’indice Mib è cresciuto del 14,6%, diventando la terza piazza europea dopo Londra e Parigi, dopo aver scavalcato Francoforte. Anche se in calo rispetto ai due anni precedenti – quando aveva fatto registrare crescite del 17,5% e del 14,9% – con un volume di scambi pari a 3,8 miliardi di euro, il nostro mercato azionario va a gonfie vele.

Insomma, se per tre anni di seguito il listino di piazza Affari consegna agli investitori un aumento complessivo del 47%, viene da dire “declino? ma mi faccia il piacere!”, e tanti saluti alle preoccupazioni. Eppure, lo scenario congiunturale è di segno opposto. Per tutti valga l’andamento del pil, l’indicatore più importante: nel 2005 speriamo sia riuscito a stare sopra lo zero (lo sapremo fra pochi giorni), mentre i paesi dell’area euro viaggiano in termini tendenziali sull’1,6%. Se si considera che nel 2004 la ricchezza nazionale prodotta era cresciuta dell’1,1% e nel 2003 dello 0,3%, si può dire senza tema di smentita che negli ultimi tre anni l’andamento della Borsa è stato stellare mentre quello dell’azienda Italia spaventoso. Come si spiega questa clamorosa discrasia? Il motivo, oltre che nell’inarrestabile processo di finanziarizzazione della nostra economia, sta probabilmente in altre graduatorie. Leggo, infatti, che nella classifica stilata dalla Commissione Europea sull’innovazione di processo e di prodotto nei paesi più sviluppati, l’Italia si trova in 17ma posizione. Dieci anni indietro – dico dieci! – rispetto alla media europea, la quale è a sua volta in ritardo di cinquant’anni in confronto agli Stati Uniti. Due, sostanzialmente, i motivi: la scarsità – per non dire l’assenza – delle condizioni strutturali di sistema che favoriscono l’innovazione, e il basso sforzo innovativo delle imprese. Come dire che la politica non fa il suo mestiere, cioè disegnare una politica industriale che alle imprese indichi la strada da percorre e offra loro le condizioni orizzontali per un’inversione di tendenza, ma che anche l’imprenditoria investe poco nell’azienda, pagando il tutto in termini di perdita di quote di mercato. Eppure la stessa Confindustria, per bocca del vicepresidente Pasquale Pistorio, non esita a sostenere che nell’economia globale i paesi avanzati non hanno di che competere sul costo del lavoro, e quindi possono farlo soltanto sul valore aggiunto dei loro prodotti. Come dire che se vogliamo recuperare competitività – a proposito, la classifica del World Economic Forum ci relega al 47mo posto, ma il ministro Stanca ci conforta sostenendo che in realtà siamo al 20mo (sic) – occorre prima di tutto un netto cambio di mentalità. Invece noi – da veri italiani – ci intestardiamo a contestare i dati e a dire che l’arbitro è venduto, mentre la partita è quasi compromessa e il tempo sta per scadere.

Pubblicato sul Messaggero del 16 gennaio 2006

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