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Chi tenta d’innovare incontra veti incrociati

Infrastrutture, un nodo irrisolto

Il federalismo sgangherato e il provincialismo <i>nimby</i> condannano il sistema Italia

di Enrico Cisnetto - 07 novembre 2005

Anacronistica e dannosa. L’odio per le nuove infrastrutture, di cui la battaglia della Val di Susa contro l’installazione dell’alta velocità sulla tratta ferroviaria Torino-Lione è l’ultimo esempio, nasce dalla perniciosa alleanza tra il fondamentalismo ambientalista e il provincialismo nimby. Vale a dire tra la sinistra del centro-sinistra (Verdi, i due partiti comunisti, i massimalisti Ds e Cgil), e quegli enti locali che, per colpa dello sgangherato federalismo nostrano, pretendono di anteporre i loro (presunti) interessi a quelli nazionali. “Not in my backyard”, è lo slogan di questo strano connubio radical-localistico italico: costruite dove volete, ma non nel mio giardino. E così rischiamo di buttar via un’ulteriore opportunità per uscire dal declino e avvicinarci all’Europa.

Tra noi e i nostri partner continentali, infatti, corre un gap infrastrutturale ben più largo della frontiera naturale delle Alpi. E quel che è peggio è che non lo si vuole colmare. Secondo un’indagine del Cnel, il nostro Paese è penultimo, sui quindici dell’Ue – solo prima della Spagna, che comunque corre come un treno – con un indice di dotazione infrastrutturale di 95, contro i 117 del Regno Unito, i 115 della Germania, i 101 della Francia. Confindustria, a sua volta, rileva che gli investimenti italiani in opere pubbliche non riescono da anni a superare l’1,5% del pil, contro il 2,3% francese, il 2,7% tedesco e il 3,7% spagnolo. Il trasporto merci su gomma occupa il 75% delle attività di scambi commerciali interni, contro il 38% della media europea. Troppo congestionate, quindi, le nostre autostrade, mentre le altre vie di comunicazioni vengono sfruttate poco. Le infrastrutture italiane, per allinearsi al livello medio europeo, dovrebbero dotarsi ogni anno di 15 miliardi di euro di investimenti in più rispetto ai 18 attuali.

Nella tecnologia, poi, è pure peggio. I dati Ue pongono l’Italia al penultimo posto nella classifica dell’innovazione tecnologica. Paesi scandinavi e Gran Bretagna, che si collocano tra i primi, vantano un livello di digitalizzazione triplo rispetto al nostro. Certo, non si può nemmeno dire che di tentativi non ce ne siano stati, e per tempo. Negli anni 80, per esempio, il progetto della Telecom guidata dal compianto Ernesto Pascale, aveva l’ambizione di portare la rete a fibre ottiche in tutte le case d’Italia. E se le opposizioni trasversali a qualsiasi forma di innovazione non si fossero messe di traverso, saldandosi con interessi vari, il Paese avrebbe occupato una posizione assolutamente di avanguardia nella cablatura. Oggi, invece, solo un italiano su cento ha pieno accesso alla banda larga (dati Ocse), mentre negli Usa il rapporto è uno su due. Il digital divide italiano è difficile da rimuovere, nonostante gli sforzi del Cnipa e del ministero per l’Innovazione.

D’altra parte, il centro-sinistra al governo aveva posto tra le sue priorità le grandi opere, Tav e Stretto inclusi, ma fu bloccato dai veti interni alla coalizione. Mentre il centro-destra ha sì fatto la legge obiettivo, ma senza toccare il principio del “massimo ribasso d’asta” della Merloni, e soprattutto sposando un federalismo che ha regalato ancor più potere di veto agli enti locali. E così, schiacciata tra gli opposti estremismi, l’Italia langue immobile.

Pubblicato sul Messaggero del 6 novembre 2005

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