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Il tempo e' scaduto

In difesa di Emma

Questa volta il "fine regime" segnera' la condanna di tutti

di Enrico Cisnetto - 21 ottobre 2011

Comunque vada sarà un insuccesso. In attesa di sapere chi verrà nominato governatore della Banca d’Italia – dopo le performance del “indeciso a tutto”, qualunque scelta risulterà o sbagliata o presa nel modo sbagliato, o anche entrambe le cose – e in attesa di vedere cosa conterrà davvero il famigerato “decreto sviluppo” – ne ho compulsato una copia, una delle enne che circolano, e se è così meglio niente, grazie – e mentre accendiamo ceri perché dai vertici europei, bilaterali e plurimi ma sempre senza l’Italia, esca finalmente la soluzione che salvi l’eurosistema dalla catastrofe, non ci rimane che ragionare su Confindustria e dintorni in vista della Terza Repubblica. Giavazzi, con la consueta abrasività, ha messo i piedi nel piatto: non serve, anzi è dannosa, chiudiamola.

Il tutto contrapponendo a Marcegaglia la cosiddetta “linea Marchionne”. Ferrara gli è andato dietro, fino al punto di proporre l’inedita accoppiata “Cav. + Giavazzi”, immagino sgradita a quest’ultimo. Mentre sul fronte opposto, a parte l’inevitabile autodifesa (da Oscar) della presidente di Confindustria, l’unica voce interessante mi è parsa quella di Macaluso, che ha ricordato l’effetto di coesione sociale prodotto da “patti” come quello del 1992.

Il mio giudizio è che Giavazzi abbia posto una questione giusta, ma in modo sbagliato. Sgombriamo il campo dalla questione Fiat, perché è fuorviante. Marchionne non ha alcuna credibilità per porre pur giuste e condivisibili questioni relative alla flessibilità del lavoro e della contrattazione. Il suo obiettivo era e rimane un altro: creare tutti gli alibi necessari – non tanto a lui, che se ne frega, quanto agli eredi Agnelli – per giustificare la fusione tra Fiat e Chrysler e la conseguente chiusura di tutti gli impianti in Italia. Se così non fosse sarebbero già partite le nuove produzioni promesse, che invece sono al palo. L’uscita da Confindustria si iscrive in questo quadro, serve ad alimentare il grido di dolore “mi costringete ad andar via”.

Detto questo, il tema rimane. Rimane la necessità di accelerare il traghettamento della contrattazione verso la dimensione aziendale, rimane la necessità di abbassare il costo per unità di prodotto e di alzare la produttività, anche lavorando di più. E rimane da capire se queste parti sociali – dunque non solo Confindustria, ma tutte le associazioni datoriali, e i sindacati – abbiano ancora senso. Ma il loro eventuale superamento non riguarda le cose che dice Giavazzi, ma la fine ormai prossima (qualunque sia la modalità del “the end”) della Seconda Repubblica. Perché questa volta non andrà come 17 anni fa, quando il grosso del capitalismo, le parti sociali e la gran parte dei corpi intermedi rimasero indenni dallo tsunami che si portò via la Prima Repubblica. No, stavolta il “fine regime” segnerà la condanna non solo della politica, ma anche dei “salotti buoni” (già in via d’estinzione) e di quell’enorme baraccone di soggetti, fatto di grandi apparati e di piccole e minuscole sigle, che è la rappresentanza sociale.

La quale in questi anni si è tanto più gonfiata dimensionalmente e tanto più resa autoreferenziale quanto più ha perso rappresentatività, ruolo, potere reale. Al di là della cronaca, il vero motivo per cui cadrà l’attuale sistema politico sta nel combinato disposto tra la crisi strutturale dell’economia, che in Italia somma motivi endogeni ed esogeni, e il crollo verticale del vecchio impianto istituzionale. Una crisi di portata tale da mettere in discussione tutto e tutti, niente e nessuno esclusi.

Per questo non mi stupiscono i regolamenti di conti dentro quel che rimane dell’establishment economico-finanziario – la giubilazione di Geronzi da Generali e i problemi di Della Valle in Mediobanca e Rcs, in apparente contraddizione, sono solo le prime avvisaglie – né i mal di pancia di Confindustria, che sembra essere diventata il parafulmine su cui si scaricano tutte le (inevitabili) tensioni del capitalismo italiano in una fase di crisi terribile. Un tourbillon – che scuote il grande albero, per molti versi marcio, del potere economico – che va ben al di là della grande corsa al “dopo Marcegaglia” e che finirà per mettere in discussione gli equilibri in Mediobanca (e dunque anche in Generali), in Rcs, nelle banche, nelle società pubbliche e in quelle non del tutto ex pubbliche. O forse l’esistenza stessa di tutti questi soggetti.

D’altra parte, il maggioritario, che lo stesso potere economico volle fortemente, invece di rompere ogni tipo di cinghia di trasmissione degli interessi con la politica, ha prodotto una forma di collateralismo del tutto subalterna, perché Berlusconi se li era mangiati nella sua constituency elettorale, mentre a sinistra la fine del partito guida ha spinto i mondi satellite (per esempio la cooperazione) a “mettersi in proprio” e altri, Cgil in testa, a irrigidirsi nello sterile schema dell’anti-berlusconismo. Risultato: quella parte della società che vive nel mercato, ha sviluppato anticorpi in proprio, senza bisogno di rappresentanze, che peraltro non ha, mentre quella parte “protetta” – la maggioranza? – ha raschiato il barile e rischia l’effetto Grecia. Il tempo è scaduto. Per tutti.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.