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Public Policy

La credibilità delle agenzie di rating del credito

Il valore del rating

Il rischio è che ai vizi privati delle agenzie non si affianchino pubbliche virtù

di Luigi Pianesi - 07 ottobre 2011

Negli ultimi anni, in particolar modo con la crisi dei mutui subprime, la credibilità delle agenzie di rating del credito è stata fortemente messa in discussione e le agenzie sono state individuate come uno dei principali attori della crisi. Si è affermato che «al cuore dell’infernale meccanismo delle securitisations che produce titoli «tossici», vi è il rapporto simbiotico fra banche di investimento che organizzano le emissioni e agenzie di rating che formulano i loro giudizi» (Onado).

Oggi che la crisi investe direttamente i debiti sovrani le agenzie sono tornate nuovamente alla ribalta, specie dopo che Standard&Poor’s ha diminuito il rating degli USA e di diversi Stati europei, tra cui l’Italia (e alcune tra le più importanti società pubbliche e banche del nostro Paese), stavolta per gli effetti che i loro giudizi sull’affidabilità degli Stati possono avere sia sulle scelte di politica economica interna di questi ultimi, sia sui rapporti internazionali, sia infine sulla stabilità dei soggetti che detengono debito sovrano.

In entrambi i casi, le agenzie sono state fortemente criticate: prima perché, tra l’altro, non avrebbero previsto i default di diversi emittenti, assegnando ratings elevati (investment grade) a chi non li meritava e a titoli tossici finiti nei portafogli di banche di tutto il mondo, ora perché i loro giudizi sui debiti sovrani sarebbero in realtà politici e non tecnici. Rating sovrano e rating privato sono poi fortemente legati, poiché, a tacer d’altro, lo Stato è il prestatore di ultima istanza delle banche che hanno in portafoglio i titoli dei debiti pubblici oggetto di valutazione, sicché un downgrading del debito sovrano ha effetti negativi sulla valutazione dell’affidabilità di chi lo detiene.

Nel racconto della crisi le agenzie di rating sono frequentemente messe sul banco degli imputati (in senso non solo metaforico: si pensi all’indagine in corso della Procura di Trani), ma non sempre con una visione sufficientemente chiara del fenomeno. S’invoca, infatti, da più parti un intervento pubblico nel sistema del rating, non solo attraverso una nuova regolamentazione del settore (per lungo tempo assente: in Europa fino al Regolamento n. 1060/2009), ma anche attraverso la creazione di agenzie pubbliche.

Questa opzione andrebbe tuttavia attentamente valutata e ponderata, visto che proprio l’intervento pubblico sembra aver giocato un ruolo fondamentale affinché le agenzie siano divenute ciò che sono oggi, attribuendo ai loro giudizi un valore “privilegiato” di stampo pubblicistico inserendoli in misure regolatorie. In realtà, più che procedere verso la pubblicizzazione delle agenzie, potrebbe essere più opportuno riportarle alla loro originaria dimensione privatistica, eliminando i ratings dalla regolazione privandoli del valore “privilegiato” di cui oggi godono e aprendo il mercato del rating alla concorrenza.

Occorre, infatti, considerare che le agenzie di rating sono state al centro di un duplice processo. Da un lato, nel corso degli anni il loro modello di business è profondamente cambiato: senza pretesa di esaustività, al modello per cui il rating era pagato dall’investitore si è sostituito quello per cui a pagare le agenzie è il soggetto emittente; le agenzie hanno iniziato ad emettere ratings non sollecitati e a prestare servizi di consulenza agli emittenti, sino ad essere coinvolte nella creazione degli strumenti finanziari poi valutati; hanno preso sempre più piede i ratings sovrani.

L’influenza delle agenzie è cresciuta enormemente: quando nel 1909 John Moody avviò la sua attività volta a colmare il gap informativo che le imprese americane si trovavano ad affrontare per conoscere l’affidabilità delle loro controparti in un mercato che, con lo sviluppo dei trasporti e delle ferrovie, era divenuto tanto vasto, probabilmente non immaginava che, diversi anni più tardi il famoso columnist del New York Times Thomas Friedman avrebbe paragonato la “sua” Moody’s Bond Rating Service (oggi Moody’s Investors Service) agli Stati Uniti attribuendole lo status di superpotenza dotata della terribile arma del downgrading dei bonds oggetto della sua valutazione.

Dall’altro lato, le agenzie sono divenute oggetto dell’attenzione dei regolatori pubblici, che hanno finito, come spesso accade, per attribuire al destinatario della loro azione un ruolo diverso da quello che gli sarebbe proprio. In estrema sintesi, il rating costituisce un’opinione qualificata, rilasciata da un soggetto privato nell’ambito della sua attività d’impresa e normalmente dietro pagamento di un compenso, circa il merito di credito e l’affidabilità di un soggetto o di un titolo. Due sono le utilità connesse all’acquisto di un rating: l’informazione, contenuta nel rating quale indice sintetico del merito di credito e dell’affidabilità e la reputazione (che al tempo stesso costituisce per le agenzie un asset fondamentale poiché il loro successo è strettamente dipendente dalla fiducia e dalla credibilità che acquisiscono sul mercato) connessa all’ottenimento di un determinato rating.

Ciò almeno fino a che il rating non viene incorporato in misure regolatorie che ne modificano la natura facendo subire ad una opinione privata, sia pur particolarmente qualificata, una sorta di mutazione genetica in strumento di regolazione nella c.d. rating-based regulation. Si tratta della certification function delle agenzie riconosciute, che non si limitano a fornire la valutazione di un credito, ma rilasciano una “licenza” di accesso a determinati mercati o consentono la sottoposizione a vincoli regolatori meno stringenti. Negli Stati Uniti i ratings hanno iniziato a essere incorporati in misure regolatorie (raggruppabili in alcune macrocategorie, tra cui quelle che riguardano la sottoposizione o meno a obblighi di disclosure o addirittura alla supervisione stessa; quelle che consentono l’emissione di determinati prodotti finanziari alla condizione dell’ottenimento di un determinato livello di rating; quelle che limitano le possibilità d’investimento di determinate istituzioni finanziarie ai soli prodotti con giudizi investment grade; quelle che prevedono determinati requisiti di capitale) sin dagli anni Trenta del secolo scorso, ma lo stesso è avvenuto in Europa e in Italia (ad esempio, in occasione delle operazioni di cartolarizzazione).

Il rating, insomma, acquisisce rilevanza non solo per emittenti e investitori, ma anche per i regolatori, che lo pongono alla base della regolazione. Le agenzie allora non vendono più informazione (o almeno non è più solo questa il valore del rating), ma, secondo la terminologia usata da Frank Partnoy, licenze regolatorie. Al contempo, non è più solo la reputazione alla base del loro successo, ma la rendita di posizione che deriva dalla trasformazione del rating in strumento di regolazione. Ciò spiegherebbe, del resto, il motivo per cui, anche a fronte della progressiva perdita di valore informativo dei ratings, sempre più spesso accusati di limitarsi a sintetizzare informazioni che il mercato già conosce e sconta, le agenzie continuino a prosperare.

L’intervento della regolazione, che combina insieme meccanismo di registrazione delle agenzie e utilizzo del rating a fini regolamentari, ha l’effetto di creare una nuova forma ibrida di autorità pubblico-privata e avviene in un mercato del rating afflitto da conflitti d’interesse e da scarsissima concorrenza: le Big Three (Moody’s, S&P e Fitch) dominano il mercato costituendo un oligopolio, che la regolazione ha contribuito a creare, anche mediante il meccanismo di registrazione e di riconoscimento ufficiale delle agenzie, che costituisce un’ulteriore barriera all’entrata di nuovi concorrenti (è il caso delle NRSROs americane).

Le agenzie, dunque, soggetti privati la cui opinione ha spesso trovato protezione nei tribunali americani perché ritenuta coperta dal I emendamento, finiscono per essere investite di una sorta di rilevanza pubblica, che garantisce loro ben più della sopravvivenza e una posizione privilegiata nel mercato.

È dunque necessario un intervento, visto anche l’insoddisfacente assetto dell’attuale regolamentazione, ma occorre scegliere con attenzione la direzione in cui muoversi. Ad oggi, quella di rinforzare la funzione pubblica del rating non sembra aver dato buona prova di sé e del resto l’esperienza insegna (o dovrebbe insegnare) che l’equivalenza tra “pubblico” e “virtuoso” è tutt’altro che scontata. Per di più, l’utilizzo dei ratings a fini regolatori non appare una necessità ineluttabile. Diversi studiosi ritengono che eliminarli dalla regolazione (con ciò evitando la creazione di licenze regolatorie), crearne un libero mercato e sostituirli (o affiancarli) con soluzioni maggiormente market-based (CDS, credit spread o altro) sgombrerebbe il campo dal problema che sorge dall’attribuire una rilevanza pubblica a giudizi che lo stesso legislatore, pur confermandone la rilevanza a fini regolatori, invita espressamente a non considerare come del tutto affidabili (come fa il Regolamento UE n. 1060/2009).

Il rating non potrebbe più essere invocato a fini di compliance alla regolamentazione e di acceso al mercato, il che potrebbe avere benefici effetti anche quanto all’individuazione delle responsabilità. Non sembra, però, questa la strada intrapresa dalle autorità europee: lo stesso EFSF, il fondo salva stati dell’UE, è sottoposto al giudizio delle agenzie e la sua attività è strettamente correlata al rating, mentre esempi di agenzie pubbliche o fortemente influenzate dal pubblico potere si affacciano sui mercati (v. il caso della cinese Dagong), ponendo nuove, rilevanti questioni. Il rischio è che ai vizi privati delle agenzie non si affianchino pubbliche virtù, ma pubblici vizi.

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