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Il tempo è ora

Ogni via di mezzo è un’avventura pericolosissima

di Davide Giacalone - 17 novembre 2011

Il momento della verità è adesso. Nel tempo che intercorre fra il giuramento del governo Monti e il dibattito sulla fiducia tutte le tessere devono andare al loro posto, perché la più grande tragedia sarebbe il varo di una nave destinata ad affondare quando ancora, sulla banchina, si festeggia. Il governo può agire anche senza la fiducia, nel mentre gli italiani sono chiamati alle urne. Così come può, meglio, attrezzare le ambulanze e raccogliere i feriti dello spread avendo alle spalle un ospedale funzionante, vale a dire un accordo che punta alla fine naturale della legislatura. Ogni via di mezzo è un’avventura pericolosissima. La partenza non è promettente.

L’assenza di Giuliano Amato e Gianni Letta non deve essere considerata solo sotto l’aspetto della debolezza politica interna, che pure è rilevante, ma anche con la mente rivolta alla debolezza politica internazionale del governo. Quel tandem è divenuto un simbolo, efficace e fallace, come tutti i simboli. Farne a meno significa navigare i mari delle tensioni internazionali, che non sono solo finanziarie (si pensi a quel che si prepara in Iran, al pericolo che corre Israele, ai focolai del Medio Oriente, sui quali i governi europei si sono dimostrati dilettanti allo sbaraglio, al ruolo che avranno gli Stati Uniti), con un equipaggio formato da imbarcati al primo giro. Taluni hanno fatto l’accademia, ma hanno meno esperienza di un pescatore. Minore conoscenza degli interlocutori e nessuno spessore internazionale. Premesse poco rassicuranti.

Abbiamo 1900 miliardi di debito pubblico e ne produciamo, ogni anno, 1600 di ricchezza. Il nostro debito è sicuro e lo abbiamo sempre onorato. La crescita dei tassi d’interesse è tollerabile (entro certi limiti) per le casse pubbliche, come ha certificato la Banca d’Italia, grazie anche al fatto che il debito è spalmato nel tempo. Ma asfissia le banche, riduce il credito (già al lumicino), stronca la competitività, induce le aziende a chiudere e accopperebbe non poche famiglie che si trovassero a dover chiedere prestiti, eventualmente anche per far fronte ad una masochistica patrimoniale. Il governo tecnico ha un senso se riesce a fare quel che la politica ha fallito, dimostrando che speculare contro l’Italia è pericoloso e, con ciò, inducendo le armate dei mercati a ritirarsi. Ha anche bisogno di peso politico, perché fin qui fa comodo mettere tutto sul conto dell’Italia e la reazione francese ad una nostra ripresa di ruolo sarà rabbiosa (già lo è).

Avere rinunciato, in queste condizioni, a due uomini che avrebbero incarnato il coinvolgimento degli apparati influenti, facenti capo ad un polo ed all’altro, lo si deve al veto posto dal Partito democratico, il che, oltre ad essere una dimostrazione d’inimagginabile insipienza, ci riporta al punto da cui sono partito: attenti alle vie di mezzo, perché aggraverebbero i problemi.

Se al governo Monti verrà accordata la fiducia ciò deve (non “può”, ma “deve”) presupporre un accordo fra i due partiti più grossi, destinato a modificare la legge elettorale e propiziare la nascita di una legislatura, la prossima, che sia costituente. Le regole della vita istituzionale devono essere riscritte. Così come devono essere cambiate le classi dirigenti. Occorre sbarazzarsi, al contempo, dei ruderi umani del comunismo e del caravanserraglio con cui s’è retta la mai nata e sempre agonizzante seconda Repubblica. Ma per ottenere questi risultati non basta che il presidente della Repubblica abbia commissariato l’opposizione di sinistra e Monti commissari il governo, quindi la maggioranza elettorale. L’equilibrio del doppio commissariamento è fragilissimo. Un suo sbriciolamento, dopo il voto di fiducia, ci consegnerebbe alla terrificante prospettiva di una campagna elettorale lunga e ritardata, il cui ritmo e il cui esito potrebbe essere dettato dagli estremisti, dagli irragionevoli, dai profittatori. Piuttosto che questo incubo, allora, meglio dire a Monti: non le votiamo la fiducia, s’insedi approfittando della forza che le deriva dall’essere un’emanazione del Quirinale, faccia quel che deve, faccia in fretta, la pianti di giocare al piccolo politico e chiamiamo gli italiani a dire la loro. Perché questa pretenderebbe di restare una democrazia, la cui vita può essere sospesa (ed è già assai grave) per il bene comune, non per una parentesi d’ulteriore impotenza che finirebbe per bruciare la fiducia nella nostra capacità di reagire ad una vera e propria guerra, sebbene non armata.

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