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Non si può aspettare invano che le cose migliorino

Il temibile spauracchio della recessione

Occorre una gestione coordinata della crisi internazionale da parte dei principali Paesi industriali

di Angelo De Mattia - 29 febbraio 2008

Trichet ieri non ha voluto parlare di politica monetaria. Bernanke, dal canto suo, prosegue nella linea di non menzionare l’ipotesi della recessione, ma i suoi ragionamenti rafforzano la convinzione che il 18 marzo vi sarà un ulteriore abbassamento dei tassi americani, quasi certamente di mezzo punto. Usa ed Europa: l’una, terrorizzata dalla crisi e dall’abbassamento delle prospettive di crescita, l’altra, abbacinata dagli sviluppi infausti dell’inflazione. Sembrano venir meno le vie di mezzo, le sintesi. Si manifestano due volti, il primo (Usa), contrassegnato dalla dura determinazione, che può giungere all’avventurismo, di abbassare i tassi – con conseguente forte indebolimento del dollaro – coordinatamente con altre misure, a partire da quelle fiscali, che però stentano a incidere, mentre pesa la fase pre-elettorale. Il secondo, caratterizzato dal mantenimento di un livello assai alto dei tassi e dall’euro fortissimo, che potrebbe alla lunga mimare il chirurgo dopo un’operazione tecnicamente perfetta, ma che osserva il paziente deceduto. Non bastano a spiegare queste differenze i profili costituzionali diversi nei quali si inquadrano le rispettive politiche economiche e quelle monetarie.

I problemi dei rapporti tra le aree del dollaro, dell’euro e delle monete asiatiche sono strutturali; riguardano le condizioni economico-finanziarie dei rispettivi Paesi e le loro politiche verso l’esterno; sono decisamente aggravati dalla crisi dei subprime che si riflette sull’economia reale dall’andamento dei prezzi del petrolio, dei prodotti energetici e dei beni alimentari, nonché, da ultimo, dalle difficoltà nelle quali si sono venute a trovare negli Stati Uniti anche le due agenzie pubbliche immobiliari Fannie Mae e Freddie Mac (sul cui funzionamento la Banca d’Italia si era soffermata già cinque anni or sono).

Ma può la pur straordinaria mole dei problemi economici far concludere, invertendo un fortunato slogan, che nulla si può fare e che resta solo la speranza che le cose migliorino? Sarebbe una sconfitta storica della politica e mai più si potrebbero credibilmente affrontare i temi della governance globale. Proprio per fronteggiare una situazione che è di emergenza, occorrerebbe che i principali paesi industriali facessero ciò che non hanno fatto nel G7 di Tokyo, cioè si assumessero le responsabilità di raccordare, pur nella diversità delle impostazioni, gli interventi delle Autorità nazionali con un disegno capace di rispondere alle turbolenze internazionali e di aiutare il ripristino della fiducia nei sistemi bancari e finanziari. Insomma, una gestione vera, coordinata, della crisi, che intervenga anche sui movimenti speculativi relativi al prezzo del petrolio.

Ma pure nell’Eurosistema il calo delle stime della crescita dovrebbe fare agire, non più soltanto riflettere. Se può essere irrealistico chiedere alla Bce un significativo abbassamento dei tassi, realistico è invece chiedere che essa osservi una linea la quale, da un lato, prevenga ulteriori impulsi inflazionistici, ma dall’altro si dia carico della crescita. Una linea che non può tradursi nella stasi, che non è sinonimo di politica monetaria accomodante, come vorrebbe la Banca di Francoforte. Non c’è nostalgia delle svalutazioni competitive o comunque di manovre sul cambio per ricostituire i margini di profitto: è acqua passata, per di più dannosamente. Ma mutuare in toto la politica del “fu” marco tedesco, con tassi alti e cambio fortissimo, per economie, come quella italiana, che “tedesche” non sono, anziché costringere a processi di ristrutturazione rischia, come nella metafora chirurgica, di incidere fortemente sulle imprese minori e sulla loro capacità di esportazione, ma anche, dato il costo del denaro, sui consumatori. E’ necessaria una sintesi adeguata.

La riconversione esigerebbe tempi e misure di politica economica ora non certo imminenti in diversi Paesi. E il Vittorio Alfieri di oggi che si lega alla sedia per studiare ( leggi:tassi e cambio come frusta per ristrutturare) può anche rimanere legato senza alcun profitto e danneggiarsi il fisico (come per le imprese minori). Ma sono anche i governi che debbono agire. Dov’è l’Europa, almeno in quei campi in cui un’azione unitaria è possibile, come la politica energetica o, ancor più, la fissazione del livello del cambio, che è competenza sia dei governi – i quali in larga parte si lamentano ma non agiscono – sia della Bce?

E, poi, l’Italia: si possono attendere tre-quattro mesi nell’inerzia, finché si costituisce il nuovo governo, tanto, “dum Romae consulitur”, c’è la Bce, cioè il chirurgo che però può anche danneggiare? Non sarebbe doveroso, pur con tutte le limitazioni costituzionali di questa fase, concordare almeno alcune delle misure di risposta alla crisi senza sperare, da parte di qualche forza politica, nel tanto peggio (ora), tanto meglio per e dopo le elezioni? E i programmi dei partiti non andrebbero valutati per come si propongono di rispondere alla crisi già nel primo mese di governo?

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