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Accordo-welfare: un feticcio che va cambiato

Il protocollo della discordia

È insufficiente, conservatore e non tocca il vero problema: le pensioni

di Enrico Cisnetto - 05 ottobre 2007

Se mai ci fosse stato bisogno di una conferma dello stato di irresponsabile confusione che regna nel “sistema Italia” (si fa per dire), la vicenda del welfare assolve benissimo al compito. Il protocollo della discordia, infatti, costringe i riformisti – per capirci, i difensori della legge Biagi – a sostenere un accordo tra governo e parti sociali che, tanto sul fronte della previdenza quanto su quello della normativa del mercato del lavoro, ha molti motivi per essere definito conservatore, solo perchè il fronte massimalista preme per una sua modifica in senso peggiorativo. Per carità, capisco che la contestazione della Fiom spinta fino al punto di rompere gli equilibri in casa Cgil e l’attestarsi delle componenti più ottuse della sinistra al governo su posizioni intransigenti – fino a creare la paura, o l’aspettativa, di una crisi del gabinetto Prodi proprio sul welfare – possano indurre a limitare i danni. Ma un conto è difendere il protocollo dalle intemerate di Ferrero e compagni, altro è farne una bandiera quando, invece, i riformisti dovrebbero essere impegnati nel chiedere un coraggioso adeguamento dell’età pensionabile ai livelli occidentali (minimo 65 anni), nel denunciare l’iniquità generazionale dello scambio tra la trasformazione dello scalone in scalini con l’aumento dei contributi previdenziali a carico dei giovani che hanno lavori flessibili, e nel proporre una riforma del mercato del lavoro che, in linea con il pensiero di Marco Biagi, riveda lo statuto dei lavoratori per evitare il crescente dualismo tra garantiti e non.

Naturalmente, non mi sfugge che la decisione di Prodi di scorporare il pacchetto welfare dalla Finanziaria – dove in un primo tempo doveva essere collocato – con il solo (e solito) intento di allungare la vita del governo, finisca per mettere in secondo piano i temi in esso contenuti, e per produrre schieramenti (ufficiali ma soprattutto ufficiosi) funzionali all’obiettivo o di salvare palazzo Chigi o di farlo capitolare. Allontanando così la possibilità che di pensioni e di stato sociale da riformare si possa finalmente parlare pensando agli interessi del Paese, e delle giovani generazioni in particolare. In questo contesto, inevitabilmente anche le parti sociali danno il peggio. I sindacati, o meglio le loro componenti più ragionevoli, sembrano essere vittime di questa sindrome schizofrenica. Primo perchè affrontano la verifica nei luoghi di lavoro consapevoli che a far pendere l’ago della bilancia a favore del sì al protocollo sarà il voto dei pensionati, il che è già una sconfitta in partenza (tanto che si dice apertamente che il no “vincerebbe” se solo superasse il 30%). E secondo perchè Cigl-Cisl-Uil-Ugl fissano il confine della loro apertura riformista ben più indietro di quanto non solo sarebbe necessario, ma anche di quanto loro stessi potrebbero spingersi se la vicenda non avesse assunto questi contorni. Lo sanno bene Angeletti e Bonanni – e pure Epifani – che di fronte ad una classe politica di diversa statura e a governi di ben altro piglio decisionista e capacità politica, dovrebbero essere più coraggiosi. Lo sanno bene che episodi come quello accaduto nei giorni scorsi alla Fincantieri di Genova – dove degli operai sono stati sorpresi in orario di lavoro a fare il bagno, prendere il sole, pescare o addirittura a fare immersioni con tanto di muta da sub, ma hanno trovato la solidarietà del sindacato con tanto di blocchi che hanno paralizzato il traffico cittadino – confermano i giudizi di Ichino sulla necessità che i fannulloni vadano licenziati e che un sindacato autorevole dovrebbe il primo a non difenderli. Ma tant’è, i difetti della politica sono alibi troppo comodi perchè la “casta sindacale” resista alla tentazione di farne uso.

E lo stesso discorso vale per la Confindustria, perchè il Montezemolo che batte i pugni sul tavolo intimando “l’accordo sul welfare non si tocca” cede in modo miope ai piccoli interessi di bottega delle imprese (i contratti a termine) a scapito degli interessi strategici del Paese (le pensioni), finendo per fare di questo protocollo – che come abbiamo visto non merita neppure la sufficienza – un feticcio. E’ proprio vero che se invece dei “privilegi della politica” – che pure esistono, e in certi casi sono odiosi – ci decidessimo a sancire la ben più grave (per le conseguenze che provoca) “mancanza di coraggio della classe dirigente”, non basterebbero tutti i comici di Zelig, altro che quell’impunito di Grillo.

Pubblicato su il Foglio di venerdì 5 ottobre

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