La doppia valenza della vicenda Fiat
Il progetto Marchionne
Il disegno egemonico del manager dal maglioncino bludi Enrico Cisnetto - 30 luglio 2010
La vicenda della Fiat ha una doppia valenza. Una buona e una cattiva. Ma prima di arrivare ai giudizi, vediamo di ricostruire cosa è successo e cosa sta succedendo.
Tutto va letto usando la chiave del rapporto tra gli Agnelli e Sergio Marchionne. Il quale subisce una drastica modifica a partire dal 15 maggio 2009, giorno in cui viene a mancare Susanna Agnelli, divenuta dopo la morte di Gianni e di Umberto l’unico punto di riferimento “anziano” dell’accomandita di famiglia. Era stata lei a volere il manager italo-svizzero-canadese che si sarebbe poi identificato con l’uso smodato di un pullover blu, alla guida della Fiat nel momento forse più buio della sua lunga storia. Ma sempre lei aveva tenuta unita la famiglia intorno alla Fiat, impedendo che prevalessero le spinte a disfarsene. Per questo due settimane dopo la sua morte, il figlio Lupo Rattazzi rilascia al Corriere della Sera un’intervista in cui manda un messaggio neanche troppo criptico all’amministratore delegato: “con Chrysler abbiamo davanti un lavoro da far tremare i polsi, ma la famiglia Agnelli non si tira indietro”.
Era il tempo in cui il governo tedesco aveva appena fatto cadere l’opzione Opel e alla Fiat non era rimasta che l’alleanza con la disastrata casa automobilistica di Detroit. Quel progetto, nato tripolare e finito bipolare con un po’ troppa disinvoltura, non a caso era stato concepito e lanciato da Marchionne quando, complice anche la malattia di Susanna, gli Agnelli sembravano orientati a lasciarlo fare. E quella reazione di Rattazzi è poi risultata una parentesi d’orgoglio destinata a rimanere tale. Da quel momento Marchionne ha un disegno chiaro in testa: realizzare il progetto, che gli era proprio fin dall’inizio, di “sfilare” l’azienda agli Agnelli, renderla una public company in modo da esserne di fatto il “padrone” e portarla altrove, sia come testa (proprietà, sede, vertice manageriale) sia come corpo (stabilimenti).
Per questo non guarda troppo per il sottile se nel “pacco” c’è o meno la Opel, l’importante è poter congegnare una fusione che porti alla diluizione significativa della quota (30%) detenuta dalla Giovanni Agnelli Sapa attraverso la Exor. Favorito dall’apertura di credito ricevuta da Obama, Marchionne va esattamente in quella direzione. Fino ad ottenere che il cda della Fiat, simbolicamente riunito negli States, varasse lo scorporo di Fiat Auto dal resto del gruppo, passaggio propedeutico appunto alla sua fusione con Chrysler. Cosa che avverrà prossimamente, sancendo così la fine non solo del ruolo di azionisti di riferimento degli Agnelli – che lasceranno il posto, incredibile ma vero, ai sindacati americani e canadesi, i quali avevano accettato di trasformare una parte dei diritti acquisiti dei lavoratori che rappresentano in azioni – ma anche della stessa italianità della Fiat.
Ecco, con quel passaggio, gli Agnelli hanno ammainato la bandiera – per evitarlo dovrebbero mettere molti soldi nella nuova società derivante dalla fusione, ma la possibilità che questo accada è una su un miliardo – e Marchionne ha avuto la strada spianata per completare il suo disegno egemonico. Ed è qui che nasce la controffensiva nei confronti del sindacato in Italia, che ora si allargata alla Confindustria, alla politica e allo stesso governo. Sfida prima lanciata su Pomigliano, probabilmente con la speranza che non solo la Fiom e la Cgil gli dicessero di no, in modo da giustificare l’abbandono di un sito produttivo a cui comunque l’accordo raggiunto con Cisl, Uil e Ugl al massimo farà recuperare una decente produttività ma non certo una capacità di competere con altri nell’Europa dell’est o dove il costo del lavoro e degli altri fattori della produzione sono decisamente più bassi.
La cosa non gli è riuscita, ma non è casuale che subito dopo Marchionne abbia da un lato continuato a richiedere una risposta unanime ai lavoratori – risposta che tale non è stata in occasione del referendum interno a Pomigliano – e dall’altro abbia aperto altri fronti di scontro, dalla minaccia di portare in Serbia la produzione del monovolume a scapito di Mirafiori, alla richiesta addirittura clamorosa di disdettare il contratto di lavoro metalmeccanico anche a costo di uscire da Federmeccanica e Confindustria.
Insomma, se mettiamo insieme tutti i pezzi del puzzle il quadro è chiaro: Marchionne vuole portare via dall’Italia la Fiat, tutta intera. Costi quel che costi, tanto la proprietà non sarà più domestica e la sua partita personale si svolge lontano da qui. Biasimarlo? Sarebbe moralismo di grana grossa. Anche perché ciò di cui Marchionne accusa il sindacato, il sistema di relazioni industriali e i modelli contrattuali nazionali non sono cose inventate. Anzi.
E può farci solo che bene che qualcuno ci svegli, pur con dei bei ceffoni, se ciò ci consente di renderci conto che il mondo sta viaggiando ad altre velocità e con altre modalità rispetto alle nostre vecchie abitudini. Tuttavia, non possiamo neppure chiudere gli occhi di fronte al fatto che l’obiettivo del manager dotato di maglione non sia quello di creare le condizioni perché la Fiat rimanga in Italia, ma il contrario. Purché crei condizioni per tutta l’industria italiana, chi se ne importa, direte voi. Vero. Ma perché sia davvero così dipende da sindacati, Confindustria e governo. Cioè da tre soggetti fottutamente conservatori.
Era il tempo in cui il governo tedesco aveva appena fatto cadere l’opzione Opel e alla Fiat non era rimasta che l’alleanza con la disastrata casa automobilistica di Detroit. Quel progetto, nato tripolare e finito bipolare con un po’ troppa disinvoltura, non a caso era stato concepito e lanciato da Marchionne quando, complice anche la malattia di Susanna, gli Agnelli sembravano orientati a lasciarlo fare. E quella reazione di Rattazzi è poi risultata una parentesi d’orgoglio destinata a rimanere tale. Da quel momento Marchionne ha un disegno chiaro in testa: realizzare il progetto, che gli era proprio fin dall’inizio, di “sfilare” l’azienda agli Agnelli, renderla una public company in modo da esserne di fatto il “padrone” e portarla altrove, sia come testa (proprietà, sede, vertice manageriale) sia come corpo (stabilimenti).
Per questo non guarda troppo per il sottile se nel “pacco” c’è o meno la Opel, l’importante è poter congegnare una fusione che porti alla diluizione significativa della quota (30%) detenuta dalla Giovanni Agnelli Sapa attraverso la Exor. Favorito dall’apertura di credito ricevuta da Obama, Marchionne va esattamente in quella direzione. Fino ad ottenere che il cda della Fiat, simbolicamente riunito negli States, varasse lo scorporo di Fiat Auto dal resto del gruppo, passaggio propedeutico appunto alla sua fusione con Chrysler. Cosa che avverrà prossimamente, sancendo così la fine non solo del ruolo di azionisti di riferimento degli Agnelli – che lasceranno il posto, incredibile ma vero, ai sindacati americani e canadesi, i quali avevano accettato di trasformare una parte dei diritti acquisiti dei lavoratori che rappresentano in azioni – ma anche della stessa italianità della Fiat.
Ecco, con quel passaggio, gli Agnelli hanno ammainato la bandiera – per evitarlo dovrebbero mettere molti soldi nella nuova società derivante dalla fusione, ma la possibilità che questo accada è una su un miliardo – e Marchionne ha avuto la strada spianata per completare il suo disegno egemonico. Ed è qui che nasce la controffensiva nei confronti del sindacato in Italia, che ora si allargata alla Confindustria, alla politica e allo stesso governo. Sfida prima lanciata su Pomigliano, probabilmente con la speranza che non solo la Fiom e la Cgil gli dicessero di no, in modo da giustificare l’abbandono di un sito produttivo a cui comunque l’accordo raggiunto con Cisl, Uil e Ugl al massimo farà recuperare una decente produttività ma non certo una capacità di competere con altri nell’Europa dell’est o dove il costo del lavoro e degli altri fattori della produzione sono decisamente più bassi.
La cosa non gli è riuscita, ma non è casuale che subito dopo Marchionne abbia da un lato continuato a richiedere una risposta unanime ai lavoratori – risposta che tale non è stata in occasione del referendum interno a Pomigliano – e dall’altro abbia aperto altri fronti di scontro, dalla minaccia di portare in Serbia la produzione del monovolume a scapito di Mirafiori, alla richiesta addirittura clamorosa di disdettare il contratto di lavoro metalmeccanico anche a costo di uscire da Federmeccanica e Confindustria.
Insomma, se mettiamo insieme tutti i pezzi del puzzle il quadro è chiaro: Marchionne vuole portare via dall’Italia la Fiat, tutta intera. Costi quel che costi, tanto la proprietà non sarà più domestica e la sua partita personale si svolge lontano da qui. Biasimarlo? Sarebbe moralismo di grana grossa. Anche perché ciò di cui Marchionne accusa il sindacato, il sistema di relazioni industriali e i modelli contrattuali nazionali non sono cose inventate. Anzi.
E può farci solo che bene che qualcuno ci svegli, pur con dei bei ceffoni, se ciò ci consente di renderci conto che il mondo sta viaggiando ad altre velocità e con altre modalità rispetto alle nostre vecchie abitudini. Tuttavia, non possiamo neppure chiudere gli occhi di fronte al fatto che l’obiettivo del manager dotato di maglione non sia quello di creare le condizioni perché la Fiat rimanga in Italia, ma il contrario. Purché crei condizioni per tutta l’industria italiana, chi se ne importa, direte voi. Vero. Ma perché sia davvero così dipende da sindacati, Confindustria e governo. Cioè da tre soggetti fottutamente conservatori.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.