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Nuove statistiche e forzature politiche

Il Pil è obsoleto, ma va difeso

L'Ocse cerca nuovi strumenti per misurare il buon governo, ma in Italia l'oggettività...

di Donato Speroni - 08 febbraio 2006

Il rapporto dell’Ocse sulle riforme che possono favorire la crescita, diffuso martedì 7, è già stato analizzato ieri da un articolo di Alessandro D’Amato. Ma alla fine il documento contiene un capitolo sorprendente sulle “misure alternative del benessere”. La domanda a cui vuole rispondere è la seguente: il Pil, prodotto interno lordo, è davvero un valido indicatore della performance di un Paese oppure ce ne sono di migliori?

La questione sembra lontana anni luce dal nostro dibattito elettorale, ma è bene dedicarvi un minimo di attenzione, se non altro per un motivo: in una discussione che trascura i programmi perché entrambe le coalizioni sono troppo eterogenee per dire qualcosa di concreto, sarebbe utile raggiungere un minimo di consenso su alcuni indicatori statistici del buon governo. Altri paesi stanno dedicando a questo tema uno sforzo sostanziale. In Italia, invece, non c’è concordanza neppure sui vecchi indicatori, a cominciare appunto dal Pil, dal tasso di disoccupazione e da quello d’inflazione.

La dinamica del Pil italiano non è sufficiente? Niente paura, il capo del governo spiega che in realtà questo avviene perché il Pil non rispecchia l’economia sommersa, dilatata in Italia dall’ingiusto peso delle tasse. E’ un falso, come ben sanno tutti gli economisti: dal 1987 il sommerso è incluso nei calcoli della contabilità nazionale. E’ sottovalutato? Non sembrerebbe. L’Istat, in accordo con Eurostat, ha appena concluso una revisione dei numeri della contabilità nazionale che non ha spostato sostanzialmente il calcolo del “nero”.

La diffidenza è accreditata anche da commentatori autorevoli. Presentando l’ultimo rapporto Censis che descriveva un’Italia in ripresa, Giuseppe De Rita ha dichiarato che “Il Pil è un mito. C’è una parte della capacità economica del paese che non è registrata. Mi riferisco ad esempio a quelle imprese italiane che vanno all’estero, come l’imprenditore pratese che va in Corea ed apre 14 negozi di jeans. Si tratta sempre di ricchezza italiana ma non va nel Pil”. Affermazione sacrosanta, perché una cosa è misurare il “Prodotto interno lordo”, un’altra è invece la misura del “prodotto italiano lordo”, cioè di tutto quanto viene prodotto nel mondo grazie alla creatività italiana. Sarebbe bello che l’Istat ci desse anche questo secondo Pil, che è certamente un importante segno di vitalità, ma dovremmo anche calcolare quanta di questa creatività si trasforma poi in beneficio per chi vive in Italia.

De Rita ha anche sottolineato che il Pil italiano “è fatto sugli stipendi pubblici e non si può ragionare solo su questi”. Anche questo è giusto: i contabili nazionali (cioè gli statistici che mettono insieme tutti i dati che servono a calcolare il Pil e le altre grandezze che compongono il conto delle risorse e degli impieghi), vista la difficoltà di misurare la ricchezza prodotta dalla pubblica amministrazione, per convenzione la calcolano sulla base degli emolumenti dei pubblici dipendenti. Se però si correggesse questo dato con parametri che tengono conto della produttività, rispetto a un benchmark determinato con gli altri paesi europei, scopriremmo che il Pil è inferiore, non certamente superiore a quello calcolato attualmente.

Insomma, la discussione italiana sul Pil non mi sembra giustificata, perché si tratta tuttora dell’unico indicatore valido del quale disponiamo. Ma questo indicatore è migliorabile? Qui si entra nei temi trattati dal rapporto Ocse e anche da altre pubblicazioni recenti.

La realtà è che nel 21° secolo il Pil non piace più. La misura del Prodotto interno lordo si presta a contestazioni crescenti, perché omette molti aspetti importanti relativi alla qualità della ricchezza prodotta: se per esempio è stata generata depauperando il patrimonio nazionale, per esempio col taglio indiscriminato delle foreste oppure avvalendosi di risorse rinnovabili. Ai fini del calcolo del Pil, la produzione stimolata dal desiderio di abbellire la casa o dalla necessità di difenderla con porte blindate ha esattamente lo stesso valore.

Gli economisti stanno cercando misure alternative, più complete, per misurare la performance di una comunità nazionale. Chi è interessato all’argomento può trovare qualche riferimento in più nel mio blog in inglese, nel quale ho segnalato il nuovo libro di Jean Gadrey e Florence Jany - Catrice, “No Pil - Contro la dittatura della ricchezza”. In Francia il volume è uscito col titolo “Les nouveaux indicateurs de richesse”, molto più appropriato per un’analisi tecnica come è in effetti lo studio delle due ricercatrici francesi. La sua trasformazione, in Italia, in una bandiera no global è indicativa della sensibilità politica su questo tema.

Molti fattori tecnici, del resto, invogliano a misurare l’economia del ventunesimo secolo con strumenti alternativi. Per esempio, il fatto che la popolazione di alcuni paesi si sta restringendo: secondo l’Economist, la Russia perderà il 22% della sua popolazione tra il 2005 e il 2050. E’ chiaro che di fronte a questo nuovo fenomeno i calcoli basati sul Pil globale non hanno più senso. Bisogna invece lavorare sul Pil pro capite, che però non rispecchia le profonde disuguaglianze interne. Da qui la tentazione di molti economisti e statistici di cercare indici compositi o addirittura di tentare una misura della felicità individuale, che non necessariamente corrisponde alla ricchezza prodotta.

Nel suo studio l’Ocse arriva alla conclusione che tutti gli indicatori alternativi sono ancora opinabili e poco confrontabili tra un paese e l’altro. Ma la pubblicazione è indicativa di un fervore di ricerca in una nuova direzione: quella, appunto, che vorrebbe misurare in un modo il più possibile oggettivo l’arte del buon governo e la soddisfazione dei cittadini.

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