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Public Policy

Riscriviamo nuove regole chiare

Il piano Obama

Un’efficace risposta alla crisi della finanza è una delle chiavi di volta per uscire dallo stallo

di Angelo De Mattia - 13 febbraio 2009

Tra sgravi fiscali, sostegni ai programmi energetici, interventi nelle infrastrutture e nella sanità, aiuti ai poveri e ai disoccupati, agevolazioni per l’istruzione, etc, il piano Obama impegna fondi pubblici per 789 miliardi di dollari. Ma di molto maggiore consistenza è la mobilitazione di risorse che la nuova amministrazione prevede di promuovere – 2 mila miliardi di dollari – per il sostegno e il risanamento del sistema creditizio e finanziario. Sarebbe eccessivo contestare l’insufficienza degli impegni dal punto di vista quantitativo, anche se la tesi dello spendere “subito e tanto” – pure a prescindere da un’analisi del “come” – ha un suo fondamento, per ciò che attiene all’economia reale. Soprattutto risponde alla necessità che venga offerta una prova evidente di capacità decisionale dopo gli ondeggiamenti dell’amministrazione Bush, ma anche che si possa finalmente vedere un piano solido, trasparente, di cui sia possibile cogliere le scelte di fondo e le articolazioni.

E, in effetti, mentre la Camera promuove indagini sulla condotta di alcuni importanti banchieri, risalta ancor più che questo è l’aspetto finora meno soddisfacente, soprattutto per quel che riguarda gli interventi progettati per la finanza. Su tale punto occorrerebbe un particolare impegno del segretario al Tesoro, perché non accada che si attenuino il grande consenso e le assai favorevoli aspettative che ha giustamente alimentato l’elezione di Obama; il Presidente ha ragione di rappresentare le difficoltà di soluzioni rapide, ma deve, almeno, dare dimostrazione che tutti gli strumenti – normativi, finanziari, procedurali – sono predisposti.

Quello di un’efficace risposta alla crisi della finanza è l’aspetto al quale il resto del mondo è particolarmente interessato, poiché, se gli Usa non riescono quantomeno a ridurre i problemi nel sistema bancario e finanziario e quelli dell’economia reale, facendo ripartire la domanda, difficilmente sarà contrastata con successo la recessione di cui soffre, innanzitutto, l’Europa. Poiché la crisi si è manifestata nelle banche, per avviarne il superamento, sta nel relativo sistema una delle chiavi di volta, certamente non la sola, come si sostiene nel Governo italiano, anche per eludere i problemi della politica economica: ciò sembrerebbe scontato. Le misure per l’economia reale non possono certo sostituire quelle per il credito. L’amministrazione Usa lo sa tanto bene da aver progettato, per quest’ultimo comparto, interventi di un ammontare complessivo enorme, come si è detto.

Ma si tratta, purtroppo, di una previsione ancora indeterminata, quanto alle modalità del sostegno e, per queste ragioni, fin qui incapace di sciogliere il nodo della sistemazione dei titoli tossici, oscillando tra bad bank, aggregator bank, altre forme di partecipazione al capitale delle banche e, poi, tra interventi pubblico e pubblico-privato, tra accollo statale dei mutui e soluzioni alternative, e così via. La vaghezza o l’assenza di dettagli hanno fatto parlare di un Segretario al Tesoro, Geithner, come di un personaggio “senza piano”. Ritornano i riferimenti sul passato di questo esponente per motivare le sue propensioni e anche le carenze nella gestione della crisi.

Una decisione netta che separi i titoli tossici dai bilanci delle banche è assolutamente urgente. Può essere il punto di Archimede per ripristinare la fiducia tra gli istituti di credito e verso di essi, nonché per riattivare la funzione di sostegno all’economia da parte degli intermediari. Hic Rhodus, hic salta. Le varie modalità della separazione andrebbero messe a confronto per una valutazione dei costi e dei benefici.

Poi occorre operare una scelta definitiva, facendo conoscere se e quali sono gli oneri che ricadono sulla spesa pubblica o i riflessi sulle entrate, in definitiva sul contribuente, e quali – necessariamente e prevalentemente, purtroppo – sugli investitori. Si chiami come si vuole questa nuova entità o, in alternativa, si definiscano come si ritiene le necessarie procedure, ma sarebbe deleterio perpetuare l’atteggiamento dell’inutilmente temporeggiatore Paulson. Anche perché l’attesa di decisioni chiare, che poi non sopraggiungono, disorienta i mercati e si riverbera a danno dell’economia reale. Non basterebbe, sicuramente, sostenere che non si conosce l’esatto ammontare dei titoli tossici per giustificare gli indugi.

L’amministrazione dovrebbe poter impiegare tutti i possibili strumenti per giungere ad un’accettabile valutazione di tale importo. In questo contesto, ora anche il premio Nobel Paul Krugman parla, forse con eccessiva severità, di “nostalgianomics”, cioè della ripetizione pedissequa di ricette che sono state buone per la crisi del 1929. Per di più, nell’insieme del piano trova scarso spazio il tema delle nuove regole della finanza. Eppure ve ne sarebbe certamente bisogno, a cominciare dalla possibile reviviscenza del Glass-Steagall Act e finire al riordino di un caotico sistema di controllo formato da una decina di Authority e al rafforzamento della Federal Reserve.

Per fortuna, la credibilità di Obama è alta. E’ un patrimonio da preservare, cruciale, considerato il ruolo che ha la fiducia nell’azione di contrasto della crisi. E tuttavia valgono ora le decisioni concrete: rem tene, verba sequentur. Una scelta netta che l’amministrazione facesse per i profili finanziari e che poi prontamente attuasse gioverebbe non poco anche alla credibilità dei vertici internazionali, come quello che si apre oggi a Roma – il G7 finanziario al quale naturalmente parteciperà il Segretario al Tesoro Usa – chiamati d’ora in avanti, fino all’inoltrata primavera, ad assumere importanti decisioni (almeno questa è la speranza) sulla crisi e sulla globalizzazione.
Un Paese che aspira ancora a una corretta egemonia del mondo ha il dovere di svolgere un ruolo di avanguardia nel contrasto della crisi.

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