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Potenziare il settore primario per vincere il declino

Il peso del comparto agroalimentare

Una marcia in più per alla ripresa dell’Italia

di Enrico Cisnetto - 31 marzo 2008

Nel danno ai consumi e alle esportazioni che la vicenda mozzarella ha procurato, c’è un risvolto positivo che l’analogo caso della aviaria a suo tempo non ebbe: la finalmente maturata consapevolezza che il comparto agroalimentare è un pezzo decisivo dell’economia italiana. La reazione alla “bufala” delle bufale da parte del mondo politico – considerato che la campagna elettorale avrebbe potuto favorire un atteggiamento populista del tipo “adesso indagheremo e colpiremo che intossica gli italiani” –e l’attenzione senza precedenti data alla Confagricoltura e alla sua mega convention di Taormina, a conferma che gli agguerriti imprenditori agricoli capitanati da Federico Vecchioni sono diventati interlocutori di serie A non di meno che i loro colleghi di Confindustria, stanno a testimoniare come l’oblio in cui il mondo agricolo è stato lasciato in questi anni può dirsi una volta per tutte archiviato.

A Taormina, il “no” di Vecchioni alla sottocultura di origine sessantottina che identifica l’agricoltura italiana solo col “piccolo” (slow food, biologico, prodotti di nicchia), è stato unanimemente condiviso, dalla politica ai banchieri (significativo l’intervento di Salza), dal mondo delle “altre” imprese a quello culturale. E la cosa è tanto più importante perchè quella visione bonsai si è letteralmente frantumata di fronte al boom dei prezzi delle materie agricole registrato negli ultimi mesi, come testimonia il +77% del frumento. Le cause? Molteplici: il maltempo che ha colpito gli “stati granaio” come Usa e Canada; l’incremento a dir poco eccezionale della domanda proveniente dall’Asia; il riposizionamento dei grandi investitori internazionali che, dopo le batoste subite nel subprime e nei derivati, adesso scommettono sulle commodities agricole.

A gettare benzina sui prezzi è stata poi anche l’idea dei biocarburanti: ossessionati dal caro-petrolio, ci siamo lasciati andare all’idea che biodiesel e colza fossero il rimedio a tutti i mali. Così una fetta importante delle produzioni cerealicole europee è stata trasferita a questo settore. Col risultato che adesso tocca correre ai ripari, e l’obiettivo Ue di far salire dal 2 % al 10% entro il 2020 l’uso del biodiesel rischia di finire nel cassetto.

Di fronte a questa congiuntura, l’Italia si è ritrovata con i granai vuoti. Ci siamo accorti di dipendere per l’85% dall’estero per i cereali, per aver fatto scelte drammaticamente sbagliate: abbiamo detto no allo sviluppo, abbiamo chiuso la porta alle tecnologie e alla ricerca, senza capire che questa falsa valorizzazione del “made in Italy”, questa visione bucolica dell’agricoltura, ci portava alla marginalizzazione internazionale. E così, come per l’energia, anche in agricoltura abbiamo toccato con mano quanto costi – sotto ogni profilo, anche nella politica estera – la dipendenza.

Adesso, però, gli imprenditori della filiera agroalimentare rappresentati da Vecchioni – che il Censis stima siano, nell’87% dei casi, ottimisti, cosa senza eguali negli altri comparti – stanchi di essere considerati figli di un dio minore, sono riusciti a far invertire il senso di marcia al loro mondo. Certo, rispetto ai quasi due milioni di attività agricole censite dall’Istat, si tratta di una “minoranza trainante”. Ma con l’obiettivo di diventare “maggioranza emergente”, indispensabile per combattere il declino del Paese.

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