Caro Presidente le priorità sono ben altre
Il peggio non è affatto alle spalle
Non è occupandosi dei complotti, che si raddrizza l’asinodi Enrico Cisnetto - 19 giugno 2009
Capisco che Silvio Berlusconi abbia come priorità quella di affrontare il cosiddetto complotto, e che nel fronteggiarlo cerchi di far credere che si tratti di un’italica trama politico-mediatica anziché, come mi pare evidente che sia, un’operazione di natura internazionale. Capisco meno, anzi non considero accettabile, che la stessa preoccupazione animi il presidente del consiglio, il quale di fronte ad una crisi economica grave come quella che stiamo vivendo ha il dovere di occuparsi di ben altro che delle sue questioni private.
Tanto più se utilizza occasioni pubbliche, come l’assemblea generale di Confartigianato o il convegno dei Giovani Industriali di Santa Margherita, per raccontare la sua versione dei “fattacci” e non per spiegare come il Governo intende affrontare la recessione e i mille altri problemi che condannano il Paese al declino.
Perché è questo lo spettacolo a cui stiamo assistendo da mesi: ministri – molti senza poteri reali, quasi tutti senza un centesimo da spendere e spesso in contrasto tra loro per la mancanza di una linea condivisa e di una “stanza di compensazione” delle diverse sensibilità – che si danno comunque da fare, non fosse altro a livello di intenti, e un capo del Governo in altre faccende affaccendato, incapace sia di dare una linea sia, nel caso ci sia, di farla rispettare.
Sì le emergenze, i rapporti internazionali (qualcuno anche di troppo), ma anche e soprattutto l’estraneità di fronte alla sempre più lunga lista delle cose che restano in stand-by, dall’Expo su cui stiamo accumulando un ritardo quasi incolmabile ai cantieri delle opere pubbliche che non si aprono, dalla grande questione industriale di un manifatturiero che rischia di dimezzarsi al fronte di scuola e università su cui non si riesce a fare un passo avanti. Per non parlare delle riforme strutturali che non si fanno e su cui si evita accuratamente di prendere impegni.
Eppure, ogni giorno che passa si è costretti a constatare che l’idea berlusconiana del “serve solo un po’ di ottimismo” e del “con la fine del primo trimestre il peggio è alle spalle”, non pare proprio fondata.
Ieri, per esempio, alla previsione dell’Ocse di una contrazione del pil del 5,3% si è aggiunta quella della Confindustria (-4,9%), mentre entrambe parlano di una ripresa faticosa nel 2010 e di un debito che salirà al 115% del pil.
L’Istat, poi, ci segnala che la caduta dell’export è continuata anche in aprile (-28,7%, il dato peggiore dal 1986), e che, come nei mesi scorsi, l’import va pure peggio (-30%), a dimostrazione che non è per nulla incominciata la tanto attesa ricostituzione delle scorte. Non abbiamo dati aggiornati sugli investimenti, ma tutto fa pensare che la loro diminuzione – stigmatizzata dal governatore Draghi nella relazione all’assemblea di Bankitalia – vada di pari passo con la riduzione delle importazioni e della produzione industriale.
Anzi, sul fronte di quest’ultima, considerato che Confindustria ha già preannunciato che a maggio è tornata a scendere dopo che l’emorragia si era fermata in aprile, possiamo dare per acquisita la contrazione di un quarto dei volumi produttivi per l’intero 2009.
Per questo, parrebbe evidente anche ad un cieco che ci stiamo avviando a scavallare l’estate in una condizione di tale difficoltà che non è né azzardato né disfattista (per dirla berlusconianamente) prevedere per settembre-ottobre la chiusura di moltissime imprese.
“Perderemo metà del nostro apparato produttivo manifatturiero, e di conseguenza una parte di terziario”, mi pronosticava non più tardi di ieri sera un imprenditore di primo piano – noto per le sue simpatie per il centro-destra, si badi bene – che ha avuto ed ha importanti incarichi confindustriali, nel cui mondo ha fama di “falco” con il sindacato, e che tra l’altro si lamenta di come i suoi colleghi e il vertice di Confindustria non stiano prendendo il toro della crisi per le corna.
A ben vedere lo stesso ragionamento che a Santa Margherita ha fatto con coraggio un imprenditore di successo come il patron di Technogym Nerio Alessandri, secondo il quale non soltanto “la crisi dell’economia reale deve ancora dispiegarsi in tutta la sua gravità”, ma quel che più conta, gli industriali italiani “non hanno capito l’emergenza, la profondità della crisi”, e si “limitano a galleggiare”.
Ora, questo scenario non sarebbe drammatico se solo ci fosse da un lato la consapevolezza di esso e, dall’altro, un progetto e i relativi strumenti per porci rimedio. Dico questo perché sono convinto – e lo scrivo da tempo immemore – che una fetta importante del nostro capitalismo, specie quello fatto di piccole e micro imprese inserite in settori maturi e tecnologicamente poveri, sarebbe stata destinata a scomparire comunque, al di là della recessione mondiale.
E, dunque, attardarsi a difendere quell’esistente è perdente quanto inutile. Di conseguenza, ben venga la selezione darwiniana, a patto che si abbiano idee e denari per favorire la dialisi. Ed è qui che casca l’asino. Della Confindustria (peggio per lei) ma soprattutto del Governo (peggio per noi). E non è occupandosi dei complotti, veri o presunti, che si raddrizza l’asino.
Tanto più se utilizza occasioni pubbliche, come l’assemblea generale di Confartigianato o il convegno dei Giovani Industriali di Santa Margherita, per raccontare la sua versione dei “fattacci” e non per spiegare come il Governo intende affrontare la recessione e i mille altri problemi che condannano il Paese al declino.
Perché è questo lo spettacolo a cui stiamo assistendo da mesi: ministri – molti senza poteri reali, quasi tutti senza un centesimo da spendere e spesso in contrasto tra loro per la mancanza di una linea condivisa e di una “stanza di compensazione” delle diverse sensibilità – che si danno comunque da fare, non fosse altro a livello di intenti, e un capo del Governo in altre faccende affaccendato, incapace sia di dare una linea sia, nel caso ci sia, di farla rispettare.
Sì le emergenze, i rapporti internazionali (qualcuno anche di troppo), ma anche e soprattutto l’estraneità di fronte alla sempre più lunga lista delle cose che restano in stand-by, dall’Expo su cui stiamo accumulando un ritardo quasi incolmabile ai cantieri delle opere pubbliche che non si aprono, dalla grande questione industriale di un manifatturiero che rischia di dimezzarsi al fronte di scuola e università su cui non si riesce a fare un passo avanti. Per non parlare delle riforme strutturali che non si fanno e su cui si evita accuratamente di prendere impegni.
Eppure, ogni giorno che passa si è costretti a constatare che l’idea berlusconiana del “serve solo un po’ di ottimismo” e del “con la fine del primo trimestre il peggio è alle spalle”, non pare proprio fondata.
Ieri, per esempio, alla previsione dell’Ocse di una contrazione del pil del 5,3% si è aggiunta quella della Confindustria (-4,9%), mentre entrambe parlano di una ripresa faticosa nel 2010 e di un debito che salirà al 115% del pil.
L’Istat, poi, ci segnala che la caduta dell’export è continuata anche in aprile (-28,7%, il dato peggiore dal 1986), e che, come nei mesi scorsi, l’import va pure peggio (-30%), a dimostrazione che non è per nulla incominciata la tanto attesa ricostituzione delle scorte. Non abbiamo dati aggiornati sugli investimenti, ma tutto fa pensare che la loro diminuzione – stigmatizzata dal governatore Draghi nella relazione all’assemblea di Bankitalia – vada di pari passo con la riduzione delle importazioni e della produzione industriale.
Anzi, sul fronte di quest’ultima, considerato che Confindustria ha già preannunciato che a maggio è tornata a scendere dopo che l’emorragia si era fermata in aprile, possiamo dare per acquisita la contrazione di un quarto dei volumi produttivi per l’intero 2009.
Per questo, parrebbe evidente anche ad un cieco che ci stiamo avviando a scavallare l’estate in una condizione di tale difficoltà che non è né azzardato né disfattista (per dirla berlusconianamente) prevedere per settembre-ottobre la chiusura di moltissime imprese.
“Perderemo metà del nostro apparato produttivo manifatturiero, e di conseguenza una parte di terziario”, mi pronosticava non più tardi di ieri sera un imprenditore di primo piano – noto per le sue simpatie per il centro-destra, si badi bene – che ha avuto ed ha importanti incarichi confindustriali, nel cui mondo ha fama di “falco” con il sindacato, e che tra l’altro si lamenta di come i suoi colleghi e il vertice di Confindustria non stiano prendendo il toro della crisi per le corna.
A ben vedere lo stesso ragionamento che a Santa Margherita ha fatto con coraggio un imprenditore di successo come il patron di Technogym Nerio Alessandri, secondo il quale non soltanto “la crisi dell’economia reale deve ancora dispiegarsi in tutta la sua gravità”, ma quel che più conta, gli industriali italiani “non hanno capito l’emergenza, la profondità della crisi”, e si “limitano a galleggiare”.
Ora, questo scenario non sarebbe drammatico se solo ci fosse da un lato la consapevolezza di esso e, dall’altro, un progetto e i relativi strumenti per porci rimedio. Dico questo perché sono convinto – e lo scrivo da tempo immemore – che una fetta importante del nostro capitalismo, specie quello fatto di piccole e micro imprese inserite in settori maturi e tecnologicamente poveri, sarebbe stata destinata a scomparire comunque, al di là della recessione mondiale.
E, dunque, attardarsi a difendere quell’esistente è perdente quanto inutile. Di conseguenza, ben venga la selezione darwiniana, a patto che si abbiano idee e denari per favorire la dialisi. Ed è qui che casca l’asino. Della Confindustria (peggio per lei) ma soprattutto del Governo (peggio per noi). E non è occupandosi dei complotti, veri o presunti, che si raddrizza l’asino.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.