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Public Policy

Clima politico che suggerisce una riflessione

Il nostro spirito costituente

E il primo passo da compiere, con urgenza, è modificare proprio l’articolo 138

di Vincenzo Palumbo - 26 ottobre 2006

Ora che i riflettori della politica si sono allontanati dal tema delle riforme costituzionali per illuminare altri scenari di più pressante attualità, è possibile affrontare il tema sine ira ac studio, cercando di capire perché mai sia così impervio il cammino verso un restyling della nostra Carta fondamentale, che pure tanti sembrano auspicare.
La risposta che mi sono dato è che i tentativi di riforma sin qui sperimentati hanno evidenziato che quando il legislatore ordinario si fa (anche) costituente, ricorrendo alle procedure previste dall’articolo 138 della Costituzione, non riesce a metabolizzare la premessa indispensabile di ogni carta costituzionale, che per l’appunto è lo “spirito costituente”.
Ciò è tanto vero per l’ultimo tentativo di riforma, quello abortito sullo scoglio referendario del 2006, quanto per quello formalmente riuscito nel 2001, che si è rivelato per un verso inutile, avendo trasferito alle regioni prerogative ulteriori senza autonome risorse aggiuntive, e per altro verso controproducente, avendo ingigantito i conflitti di attribuzione Stato-Regioni, sino al punto da essere ormai criticato anche dai suoi originari sostenitori.
In un caso come nell’altro, è infatti accaduto che le ragioni riformatrici sono state piegate alle contingenze della politica, cosicché nessuna delle due riforme è stata avvertita dal Paese come fatta nell’interesse generale, ma piuttosto in quello esclusivo dei suoi sostenitori.
E se la prima riforma, quella del 2001, ha avuto l’avallo referendario, ciò è accaduto solo perché la gran maggioranza degli italiani l’ha avvertita come pressoché inutile, e quindi tutto sommato innocua; mentre la seconda riforma, quella del 2006, che è subito apparsa ben più incisiva, ha convinto gli elettori che era meglio evitare rischi e lasciare le cose come stavano.
Se si vuole cercare di comprendere cosa sia lo spirito costituente che in tali riforme è mancato, occorre tornare indietro col pensiero al clima nel quale maturò la nascita della nostra Costituzione.
La sequenza temporale delle vicende susseguitesi nell’anno e mezzo intercorso tra il 2 giugno del 1946, allorché venne eletta l’Assemblea Costituente, ed il primo gennaio del 1948, allorché la Costituzione entrò in vigore, merita di essere ricordata perché è illuminante per capire lo spirito col quale venne allora affrontato l’immane compito di dare al Paese una nuova carta fondamentale, nella quale potessero riconoscersi tutti gli italiani, anche quelli che alla svolta democratica e repubblicana si erano opposti, molti addirittura in armi.
C’era alle spalle un conflitto che aveva distrutto il Paese, materialmente e spiritualmente, e si usciva da due anni di occupazione militare straniera e di vera e propria guerra civile, che aveva spaccato in due il territorio nazionale, mentre si era appena consumato uno scontro referendario epocale, quello tra monarchia e repubblica, che aveva ancora una volta radicalmente diviso gli italiani.
In questo clima, politicamente incandescente, l’Assemblea Costituente elegge il 28 giugno il primo capo dello stato repubblicano, chiamando all’Ufficio un monarchico dichiarato come Enrico De Nicola, mentre Saragat, allora uno dei leader socialisti, era già stato eletto presidente dell’Assemblea Costituente; qualche giorno dopo, il 13 luglio, Alcide De Gasperi vara il suo secondo governo, con democristiani, socialisti, comunisti e repubblicani, e con la partecipazione personale del liberale Corbino.
Da lì a poco, però, il quadro politico subisce un profondo stravolgimento.
Nel gennaio del 1947 si svolge il Congresso dei socialisti e Saragat ne promuove la scissione fondando il Partito socialista dei Lavoratori Italiani (Psli); nello stesso mese De Gasperi compie il suo famoso viaggio negli Stati Uniti, che avrebbe influenzato profondamente le successive scelte strategiche dell’Italia, in un quadro internazionale che avrebbe visto l’Europa spaccarsi in due campi contrapposti per molti decenni.
Il 2 febbraio, appena terminati i lavori della Commissione dei 75 che aveva predisposto la bozza di Costituzione sotto la presidenza del demolaburista Ruini, De Gasperi forma il suo terzo Governo con democristiani socialisti e comunisti e qualche giorno dopo Saragat si dimette da Presidente dell’Assemblea Costituente e viene sostituito dal comunista Umberto Terracini.
Ma ormai il tempo dell’unità nazionale postbellica volge al termine.
La scelta occidentale dell’Italia trova la sua formalizzazione alla fine di maggio, con la costituzione del quarto Governo De Gasperi, che vede l’estromissione di socialisti e comunisti, ed invece l’immediato pieno coinvolgimento dei liberali e poi, il 15 dicembre, anche l’adesione dei socialdemocratici e dei repubblicani: si forma così il primo dei governi centristi, che avrebbero poi promosso ed accompagnato la rinascita del Paese dalle distruzioni materiali e morali del fascismo e della guerra.
In quei mesi, matura e si compie un mutamento radicale di linea politica, con una scelta strategica che avrebbe saldamente collocato l’Italia nel campo occidentale, segnando in positivo tutta la nostra storia dei decenni successivi, mentre l’Europa viene divisa da una cortina di ferro e si avvia quell’anomalo terzo conflitto mondiale che passerà alla Storia come “guerra fredda”.
E tuttavia, in quegli stessi mesi l’Assemblea Costituente continua a lavorare alacremente, sotto la presidenza del comunista Terracini e con la collaborazione di tutte le forze politiche, senza distinzioni tra sostenitori ed oppositori del Governo, che mai siederà al suo banco in aula, proprio per segnare la sua estraneità rispetto alla vicenda costituzionale.
Che nel frattempo si andava sviluppando attraverso un civile confronto dialettico, mai degenerato neppure sulle norme più controverse come l’art. 7 sui Patti Lateranensi (pure approvato con una maggioranza del 70%), attraverso dibattiti appassionati che meriterebbero di essere periodicamente rivisitati, ed oggi più che mai, per poterne cogliere l’altissimo livello intellettuale e morale e l’afflato nazionale ed unitario che, pur nella diversità delle opinioni, accomunava tutti i protagonisti della vita politica, nel mentre essi andavano invece dividendosi radicalmente sul piano delle scelte di governo e della collocazione dell’Italia nello scenario internazionale.
La sublimazione dello spirito costituente si ebbe il 22 dicembre, allorché la Costituzione venne approvata con una larghissima maggioranza (453 voti contro soli 62), accomunando uomini e partiti che nello stesso momento si scontravano politicamente nel Paese in termini di assoluta ed insanabile contrapposizione, in vista delle prime elezioni politiche generali, che il 18 aprile del 1948 avrebbero visto prevalere la coalizione centrista rispetto al Blocco del Popolo formato da socialisti e comunisti.
Ho voluto ripercorrere queste vicende perché esse dimostrano che nulla dello spirito costituente di allora, in un Paese che era politicamente ed elettoralmente bipolare quant’altri mai, è possibile individuare nell’attuale strabico bipolarismo italiano, in cui la modifica delle regole costituzionali è divenuta strumento di obiettivi elettorali o cemento di alleanze politiche.
Il che è avvenuto nel 2001, allorché con la riforma del titolo quinto si è pensato di potere depotenziare l’istanza federalistica, ma anche nel 2006, allorché la riforma costituzionale è divenuta parte imprescindibile del patto di governo.
Il problema è quindi, oggi come allora, di separare nettamente le ragioni costituzionali dalle ragioni di governo, come ha opportunamente sostenuto Enrico De Mita (Il Sole 24 Ore del 14 giugno), pochi giorni prima del voto referendario.
E tuttavia, nel clima di scontro frontale che da qualche tempo imperversa nel Paese, appare impensabile un’ampia volontà riformatrice, che si sviluppi attraverso i meccanismi di revisione attualmente previsti dall’art. 138 della Costituzione.
A proposito del quale va innanzitutto detto che esso non mi pare politicamente compatibile con una complessiva riscrittura della Carta, ma soltanto con sue specifiche correzioni, com’è poi episodicamente accaduto sino alla modifica dell’art. 111 in tema di giusto processo, passata con larga condivisione alla fine del 1999.
Men che meno a quella procedura può lecitamente ricorrere un Parlamento la cui maggioranza potrebbe godere di una forza ben superiore alla sua rappresentatività elettorale, e ciò in ragione dell’effetto distorsivo del premio di coalizione, mentre è pacificamente riconosciuto che le costituzioni sono prerogativa di consessi eletti su base rigorosamente proporzionale e senza vincolo di mandato politico, neppure implicito.
Ed allora, la prima cosa di cui prendere atto è che, se una modifica c’è da fare, e subito, è quella di riformare proprio l’articolo 138, prevedendo un quorum di almeno due terzi per ogni singola riforma costituzionale (ad esempio quella riguardante un solo articolo ed eventuali norme strettamente connesse e dipendenti).
In tutti gli altri casi, in cui il Parlamento, con la medesima maggioranza dei due terzi, avvertisse l’esigenza di una riforma più incisiva (ad esempio, un intero titolo, come nel 2001) o addirittura la necessità di una riscrittura complessiva dell’impianto costituzionale (come nel 2006), si potrebbe prevedere di delegarne il compito ad un’apposita assemblea, eletta con sistema proporzionale e senza soglia di accesso, con elettorato passivo riservato a personaggi di alta qualificazione professionale e comunque svincolati dalla quotidianità dello scontro politico.
Sarebbe quindi necessario prevedere rigide incompatibilità e/o ineleggibilità dei suoi componenti rispetto a tutti gli organi governativi e rappresentativi, anche europei, sino alla conclusione del lavoro costituente, e, al limite, la loro ineleggibilità per la legislatura (europea, nazionale e regionale) immediatamente successiva all’approvazione della riforma, con coevo divieto di incarichi di governo e sottogoverno.
Si tratta ovviamente di rozze esemplificazioni; e tuttavia, ciò che va in ogni caso evitato è che i Costituenti siano o appaiano essere parti in causa (come paventa Sartori sul Corriere della sera del 12 luglio), in modo che l’opinione pubblica risulti rassicurata, nei limiti del possibile, rispetto alle interferenze che la politica militante di oggi, così diversa da quella di sessant’anni fa, egualmente proverebbe ad esercitare.
Pensare che la politica, quella “alta”, sia capace di una riflessione del genere servirebbe a convincere gli italiani che non tutto lo spirito che ha animato i padri costituenti è andato perduto, e che è ancora possibile sperare in un futuro migliore per il Paese.

Pubblicato su Libro Aperto di Luglio/settembre 2006 e sulla Gazzetta del Sud del 24 ottobre 2006

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