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Public Policy

L’ultima trovata propagandistica

Il lavoro? Meglio la libertà

Le modifiche costituzionali dei peones della libertà (e non solo)

di Elio Di Caprio - 26 aprile 2011

Ma veramente è scritto così in Costituzione? Possibile che c’è il tale articolo da modificare perché tutto venga risolto, dai diritti di libertà a quelli sociali, alla “giustizia giusta”, al conflitto di interessi? Sembra di sì.

I tanti attacchi alla Costituzione fatti in ordine sparso dagli sconosciuti (ma non anonimi) Carneade che si impancano a grandi riformatori di non si sa cosa, stanno ottenendo se non altro un risultato paradossalmente pedagogico sul significato dei singoli articoli contestati, prima sconosciuti ai più o ritenuti scontati e perciò non meritevoli di attenzione. Agli attacchi concentrici, tanto per cambiare, si risponde con la litania di una Costituzione intoccabile come se non fosse già stata ampiamente e malamente ritoccata negli ultimi anni.

Che senso ha accapigliarsi su una Costituzione-giocattolo che ancora pochi conoscono se non attraverso le uscite improvvisate di qualcuno dei parlamentari, i peones ( della libertà), nominati dall’alto in cerca di gloria e notorietà per ottenere un’eventuale riconferma alle prossime elezioni? Ci hanno detto, ed è vero, che giacciono in Parlamento numerose ipotesi di riforme parziali ad opera della destra e della sinistra che non saranno mai esaminate in questa legislatura occupata a dibattere ben altri problemi. Adesso si aggiungono altre proposte-provocazioni per vedere l’effetto che fa. Così il gioco demagogico e propagandistico non termina, anzi si prolunga impedendo di fatto la necessaria serietà con cui si dovrebbe affrontare il problema globale della riforma.

Prima si è detto che la libertà di impresa verrebbe ostacolata dall’articolo 41. Poi l’attenzione si è appuntata sulla centralità-superiorità del Parlamento che andrebbe valorizzata rispetto agli altri poteri – in apparente condivisione della linea sostenuta dal contestatissimo Gianfranco Fini? - e comunque in contraddizione con le stesse convinzioni ribadite dal Premier sull’inutile parlamento dei nominati che intralcerebbe le decisioni del governo. E adesso questo stesso Parlamento lo si vorrebbe centrale e superiore? Infine, ciliegina sulla torta, si contesta addirittura l’articolo primo della Costituzione laddove si parla di Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Davvero si pensa che riscrivendo l’art.1 e ponendo a fondamento della Repubblica italiana la libertà più e meglio del lavoro d’incanto i magistrati rispetterebbero di più l’inviolabilità della persona (e della corrispondenza e delle intercettazioni), la libertà di licenziare non sarà più considerata un peccato mortale e addirittura si potrebbe dare il via alla libera nazione padana?

La scomposta proposizione di riforme patchwork aiutano solo ad alimentare la confusione tra misure effettivamente possibili e principii di base che nessuno ha interesse a modificare : se si parte da questi si otterrà, lo sanno tutti, poco o nulla. Proprio sulla dizione di “Repubblica democratica fondata sul lavoro” accettata come dichiarazione compromissoria dai padri costituenti nel lontano ‘48 il Ministro Brunetta si è avventurato in un’audace esegesi, sostenendo che sia stata il frutto di una proposta comunista ispirata alla Costituzione sovietica. Per questo motivo- dice l’ex socialista Brunetta- a fondamento della Costituzione è stato posto il lavoro e non la libertà. Ma a voler andare all’indietro si potrebbe aggiungere che tale formula è quasi perfettamente combaciante con l’art. 9 del Manifesto di Verona del ’44, laddove era detto che “base della Repubblica Sociale (di Mussolini) e suo oggetto primario è il lavoro manuale, tecnico,intellettuale in ogni sua manifestazione”.

Una copiatura? I soviet evocati da Brunetta in effetti non c’entrano nulla con la Costituzione: in Unione Sovietica il lavoro più che un diritto, era un obbligo garantito e sanzionato penalmente dallo Stato-partito per coloro che volevano sottrarvisi. La prevalenza accordata al tema del lavoro attorno agli anni ’40 o ‘50 corrispondeva semplicemente a un principio condiviso dallo spirito del tempo, anche dalle socialdemocrazie e a prescindere dalle successive contrapposizioni di comodo tra destra fascista e sinistra libertaria.

Tutto cambia, è vero, ma non basta certo modificare la dizione letterale di un articolo per prendere le distanze dallo spirito dei tempi in cui è stato scritto e magari per dare il via e propiziarne uno nuovo. In questa strana “destra” di governo, piena più di messaggi che di fatti, le sorprese non mancano mai e sarebbe interessante analizzare quanto di spirito socialista più che liberale sia rimasto nei Ministri ex socialisti come Brunetta che ora preferisce la libertà al lavoro o come Tremonti in pieno equilibrio (o squilibrio) tra tentazioni libertarie e provocazioni dirigiste.

Non è che il gioco delle parti, tra finti liberali e finti socialisti, faccia perdere il filo conduttore al “governo del fare”che si vanta essere antropologicamente più vicino alla gente comune al di là delle fumisterie ideologiche della sinistra? Al di là delle sparate sulla preferenza di principio da accordare alla libertà anziché al lavoro (il rapporto di concambio è difficile da misurare) bisogna pur considerare che nella storia del nostro Stato unitario la cultura liberale ha sempre avuto scarso peso e successo.

A tal punto che un tema come il conflitto di interessi che incide vistosamente sull’esercizio della libertà è stato ed è ancora considerato secondario rispetto ai temi sociali o al lavoro precario e comunque sempre meno importante nella percezione comune rispetto ad altre misure “sociali” come quelle che hanno portato all’eliminazione dell’ ICI sulla prima casa….

La realtà e che con approcci così approssimativi e con culture ispiratrici così incerte ed ambigue non si riforma nulla, si fa solo propaganda.

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