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Legge de (in)stabilità

Il Governo non sa che fare, la sua maggioranza meno

Contorni mollicci, fisionomia mutevole e troppe clausole di salvaguardia: la stabilità si trasforma in immobilismo

di Davide Giacalone - 11 novembre 2013

Il problema della legge di stabilità non sono le centinaia di emendamenti, perché tanto la partita potrà concludersi in modo tradizionale, con un mostruoso maxi emendamento governativo. E, del resto, finché esiste l’emendabilità è ovvio che si presentino emendamenti, mentre per conquistarne l’immodificabilità, come a Londra, si deve cambiare la Costituzione. Il problema di quella legge è il suo essere di pongo, i suoi contorni mollicci, la sua fisionomia che cambia a seconda del ministro che parla, il suo poggiarsi pressoché esclusivamente sulle clausole di salvaguardia, vale a dire su aggiustamenti automatici successivi. Il paradosso di questo governo, che viene descritto come senza alternative e che potremmo chiamare “Enrichino sempre in piedi”, è di essere già da un pezzo in crisi, ma non poterne prendere atto. Per fare le cose che servono all’Italia occorre un governo stabile, ma per rendere stabile questo governo occorre non fare nulla.

Il governo è già in crisi perché il centro destra ripete che solo non aumentando la pressione fiscale può andare avanti, e le tasse, invece, aumentano. E’ in crisi perché nel centro sinistra se ne mette in dubbio la composizione stessa, con Matteo Renzi che chiede le dimissioni di Annamaria Cancellieri. E’ in crisi perché financo il caos di Scelta Civica pretende che si basi su un patto programmatico di legislatura, che non si vede manco con il binocolo. Però dondola e non cade, tal quale il pupazzo gonfiato e con l’acqua alla base, che ne abbassa il baricentro. Non cade perché il Quirinale lo tiene in piedi ostruendo l’unica alternativa sensata: le elezioni. E più passa il tempo più quell’uscita di sicurezza diventa a sua volta costosa e rischiosa.

Così succedono cose destinate a produrre nuovi guasti. I due partiti grossi sono insanabilmente divisi, ma non sanno come gestire la faccenda. Il Partito democratico s’è buttato in un toboga ove si viaggia felici chiamando al voto per la segreteria i non iscritti (che già da sé, questa è una corbelleria galattica), salvo avere l’apparato che desta il risultato annunciato. Ha ragione Maurizio Belpietro a osservare che con Renzi, oggi, ci sono gli apparatčik della vecchia nomenclatura comunista, ma il dato è ancora più curioso: sono quelli sconfitti e marginalizzati dai loro stessi compagni. Il Popolo delle libertà, o Forza Italia, o come diavolo si chiama ora, del resto, non sa nemmeno come contarsi, né saprebbe cosa farsene del risultato del conteggio. Gente cresciuta e pasciuta a “come ha giustamente detto il presidente” non ha gli strumenti per navigare senza il presidente alla regia. Da una parte e dall’altra hanno in comune due condizioni: a. se si contano e se decidono dopo dieci secondi si spaccano; b. quelli che stanno al governo non hanno i voti e quelli che hanno i voti non sanno che governo fare.

Silvio Berlusconi pare stia selezionando i capaci e i competenti. Evidentemente perché incapaci e incompetenti hanno già dato quel che potevano. Renzi cerca idee anche via Twitter, per poi sottoporle al processo di omogenizzazione, a esito del quale divengono parole rimbalzanti, spesso accattivanti, talora bischerate vaganti. Alla fine tutti sperano che san Silvio faccia la grazia, consistente nel non riceverla e liberare tutti dall’incantesimo, aprendo la crisi sul terreno più scosceso, che indurrebbe il Colle a riprendere in considerazione l’ipotesi delle elezioni. Per liquefarlo.

Nel frattempo la cornice costituzionale va in pezzi. Vedo che nessuno reagisce ai ripetuti annunci dei governanti, fatti anche sulla stampa internazionale, circa la fissazione al 2015 delle elezioni anticipate. Un tempo sarebbe giunto un richiamo dal Colle: c’è ancora la Costituzione, tenetelo presente. E vedo che un velo pietoso ha coperto d’oblio la riunione di maggioranza convocata al Quirinale, per mettere a punto la riforma del sistema elettorale. Riunione che avrebbe avuto un senso se il giorno dopo un testo condiviso fosse apparso sulla scena.

La democrazia rappresentativa funziona solo con i partiti politici. Noi continuiamo a raccontare la favola che si possa andare avanti con i politici partiti, e non pervenuti. Potremmo anche prenderla con rassegnato disinteresse, se non fosse che, in questo modo, si stroncano le gambe a un sistema economico e produttivo la cui forza è apprezzata e temuta nel mondo, disprezzata e ignorata in casa. Una cosa, però, m’incuriosisce, anche perché trascurata: è stato fissato il compenso per Carlo Cottarelli, nuovo commissario ai tagli della spesa (i predecessori tagliarono la corda), sicché sappiamo che egli ci rimetterà dei soldi, guadagnando meno di quel che prendeva a Washington; ma sappiamo anche che il suo contratto non cade con il governo, durando tre anni. Perché un uomo che ci rimette vuole per forza farlo a lungo? Se il suo incarico fosse funzionale al governo di “Enrichetto sempre in piedi” si capirebbe il patriottico impoverimento, ma non la durata oltre l’orizzonte che il governo stesso fissa per sé. Mettiamola così: certo non la funzione istituzionale, ma forse già le competenze e i legami del Fondo monetario internazionale sono all’opera.

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