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Più la ripresa "accelera", più il nostro ritardo cresce

Il gioco dei cineasti politici italiani

Sul grande schermo della politica nostrana si proiettano altri film

di Davide Giacalone - 14 settembre 2010

C’è qualche cosa in grado di scuotere una classe politica inchiodata ad un dibattito noioso e senza sbocchi? La commissione europea ha cambiato le previsioni sulla crescita, calcolando che il prodotto interno dell’Unione Europea dovrebbe crescere, nel 2010, quasi del doppio: l’1,7%. Festeggiamo? Calma: quando la stima era dello 0,9 per l’Italia era previsto lo 0,8; ora che si conta sull’1,7 a noi assegnano 1,1. Più la ripresa accelera (si fa per dire, giacché è lenta), più il nostro ritardo cresce. Ma sul grande schermo della politica nostrana si proiettano altri film.

Come nel cinema vero, sempre italiano, dove va per la maggiore il film noioso. Non attira il pubblico dei kolossal e non suscita le emozioni dell’opera d’arte. Girato per far piacere a chi lo dirige e a chi ci recita. Guardate quel che è successo al Festival di Venezia, dove, con 41 pellicole in concorso, non abbiamo beccato manco un ciondolino di bronzo.

Anche le cineprese sono immerse in un Paese piegato sul proprio ombelico, che ha poco mercato, in gran parte legato al ricordo. C’è un filo che lega i flop cinematografici alle miserie politiche: l’inutile costo. Finanziamo il cinema, con i soldi dei contribuenti, per difendere la cultura italiana e salvarla dal dominio del mercato. Risultato: si producono film senza mercato e gli italiani vanno a vedere quelli degli altri. Gli autoctoni di successo sono quelli concepiti apposta per il mercato, per far cassetta (e, qualche volta, sono anche belli). Ma il cinema non è l’eccezione, bensì la regola del vivere nell’illusione autoreferenziale. Fortunatamente non esiste un Festival internazionale della politica, altrimenti che metteremmo a concorso, la casa monegasca e le boiate sui bavagli?

L’autunno promette male, se queste sono le premesse. Silvio Berlusconi ha detto: andiamo avanti, governeremo altri tre anni. Pierluigi Bersani ha detto: facciamo un governo di garanzia e la riforma del sistema elettorale. Ma ci hanno preso per scemi o non sanno che altro dire? Il governo non ce la fa ad andare avanti, perché s’è già fermato. L’opposizione non riforma un accidente, perché è spaccata all’interno e ben lontana dall’avere i numeri. Stiamo solo assistendo al balletto intitolato: “non voglio che si dica che è stata colpa mia”.

Ma i ballerini sono goffi, si ha l’impressione che sia colpa di tutti e il pubblico, comunque, è come quello dei film finanziati dallo Stato quando arrivano in sala: altrove. Il governo ha fatto buone cose e altre, interessanti, sono in cantiere.

Non basta. Qui mica s’amministra un condominio, mica possiamo contentarci della nuova tastiera al citofono, serve una politica che indichi un modello cui tendere e la coerenza dei passi da compiersi. Prendiamo l’esempio della scuola: le riforme sono state impostate bene, l’introduzione della valutazione per merito nella carriera degli insegnanti è cosa buona e giusta, ma poi s’annuncia l’assunzione di tutti i precari in otto anni, e buona notte al secchio. Diciamo che, per almeno altri dieci anni, la scuola italiana sarà condannata a restare chiusa nel suo passato. Gli studenti continueranno ad essere in fondo alle classifiche internazionali.

La spesa resterà concentrata nel personale. Il resto sono parole. Interessanti, suggestive, utili ai dibatti, ma parole. Del resto, basta una protesta dei precari per bloccare lo stretto di Messina, e figuratevi se le forze dell’ordine ricevono l’ordine d’intervenire per sgomberare.

Così non si vive, si sopravvive. E ci si gira anche un film, pagato con i soldi delle tasse e che racconta un sacco di luoghi comuni sciocchi, come se i precari fossero figli della cattiveria di chi amministra anziché d’un mercato che non s’aggiorna. Bersani vuol fare le riforme? Non gliele fecero fare neanche quando era al governo. La lenzuolata (perché non ne parla più?) l’appoggiammo noi e la smontarono i suoi. Poi arrivò il centro destra, capace di rinverdire un antico costume nazionale: le controriforme senza aver fatto le riforme (si veda, sempre ad esempio, la ventilata legge sulla professione forense). Vuole il governo di transizione, Bersani, ma transizione a che?

Eppure, anziché cincischiare nel nulla, anziché ottenere il non risultato di un governo che cala nei sondaggi assieme all’opposizione (ma ci pensate?), anziché esporsi al pubblico ludibrio di una minoranza che tira un sospiro di sollievo se si evita di tornare a votare, Bersani, o chi per lui, avrebbe un’occasione politica servita su un piatto d’argento: il governo impallato gli consente di opporsi, da una parte, al reiterato tentativo, semi-golpistico, di non riconoscere il valore del voto popolare, ma, dall’altra, di ricordare che il consenso non basta, che non basta nemmeno cambiare la legge che lo calcola (il sistema elettorale) e che servono riforme costituzionali, offrendo una sede costituente, eletta o nominata, nella quale dare forma alla terza Repubblica. Se ne ricorderebbero, di Bersani (o di chi per lui), perché resterebbe nella memoria come colui il quale chiuse il passato della sinistra comunista e dischiuse il futuro a una forza legittimata ad aspirare al voto maggioritario degli italiani.

Il guaio è che a molti politici italiani, come a tanti cineasti, non interessa il successo reale del loro mestiere e del loro mercato, ma solo le norme e i quattrini che servano a mantenerli pasciuti e riveriti. Meritevoli d’onori effimeri e successivo oblio.

www.davidegiacalone.it

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