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Public Policy

Rendiamo l'Italia più competitiva

Il fallimento da cui ripartire

Modernizzare il Paese attraverso le grandi riforme strutturali

di Enrico Cisnetto - 09 settembre 2010

Come volevasi dimostrare. Le chiacchiere su “l’Italia meglio degli altri” in economia che questa estate hanno fatto da contrappunto al nauseante dibattito (si fa per dire) politico, dopo essere state “silenziate” dai dati relativi al secondo sull’andamento del pil in Europa e nel mondo – che ci vedono agli ultimi posti – ora speriamo vengano definitivamente zittite dalle nuove previsioni del Fondo Monetario, che a causa della perdurante scarsa competitività del nostro sistema economico ha abbassato allo 0,9% e all’1% le stime di crescita del pil italiano rispettivamente per quest’anno e il prossimo. Insomma, siamo tutti usciti dalla recessione, ma proprio per questo le economie si vanno riposizionando nelle stesse condizioni in cui erano all’inizio del 2007, prima che con lo scoppio della bolla immobiliare e finanziarie iniziasse la Grande Crisi.

Per la verità siamo ancora distanti da quei livelli di reddito – si pensi che nel biennio 2008-2009 abbiamo perso 6 punti e mezzo di pil, che ha significato una caduta del reddito reale delle famiglie del 3,4% e dei loro consumi del 2,5%, e abbiamo visto crollare la produzione industriale del 25% (tornando ai livelli del 1985), le esportazioni del 22% e gli investimenti del 16% – ma nel tentativo di recuperare quanto perduto con la crisi finanziaria e la recessione, tornano ad evidenziarsi le differenze che preesistevano.

E dunque, se nei 15 anni che separano il 1992 dal 2006 abbiamo perso 15 punti di pil (uno all’anno) nei confronti della media Ue e 35 verso gli Stati Uniti, e più specificatamente se nel decennio successivo al 1997 (fino alla crisi) l’Italia è cresciuta dell’1,4% l’anno, mentre Eurolandia del 2,5% e gli Usa del 3%, perché quelle differenze così consolidate avrebbero dovuto magicamente sparire con la Grande Crisi? Infatti, non è un caso che quello scarto tra uno e due punti di pil si riproponga ora. La differenza è che prima il gap maggiore era con l’economia americana, mentre oggi è con quella tedesca.

Ma noi in declino eravamo e in declino siamo rimasti, nonostante che nei tentativi di recuperare la botta recessiva si scorgano alcuni segnali incoraggianti, specie sul fronte della mutazione genetica di una parte ancora minoritaria ma importante di industria manifatturiera.

Ma il problema era, e resta, la nostra cronica incapacità di essere competitivi. Che una politica fallimentare nel corso degli ultimi 18 anni – non è un caso che l’Italia abbia cominciato a rimanere indietro proprio all’inizio degli anni Novanta, con la caduta della Prima Repubblica e l’affermarsi di quello sgangherato sistema bipolare che abbiamo chiamato impropriamente Seconda Repubblica – non solo non ha saputo risolvere, ma in gran parte ha contribuito a determinare.

Tra l’introduzione dell’euro e il 2007, per esempio, il nostro costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 19%, mentre in Francia e Germania è sceso (7,5% e 9,8%). Nello stesso periodo abbiamo ceduto ai tedeschi 32 punti di competitività. Se a questo si aggiunge il fatto che il capitalismo italiano continua a soffrire dei suoi mali antichi (taglia troppo piccola, sottocapitalizzazione, scarsa proiezione internazionale, poca managerializzazione) e ciononostante rappresenta la parte più dinamica della nostra economia, visto che il peso dell’industria sul pil è ormai solo del 30% e sul restante 70% (servizi, pubblica amministrazione) la modernizzazione è ancora più lenta.

E se si aggiunge ancora che siamo diventati il Paese più vecchio del mondo tanto che siamo i primi a sperimentare il “crossing over” (cioè il numero degli over 60 è superiore a quello degli under 20) – terribile il richiamo del Wall Street Journal alla nostra demografia: “l’Italia sta letteralmente morendo”, visto che dal 1994 il numero dei decessi supera quello delle nascite – e che il nostro sistema scolastico, universitario e formativo è un fallimento, ecco come non dovrebbe risultare difficile comprendere quanto lavoro sia necessario fare per “riposizionare” l’Italia.

Specie in una fase storica in cui gli scenari della competizione geo-politica e geo-economica cambiano molto velocemente, e a sfavore nostro e dell’Europa.
Cosa fare? Le ricette le abbiamo scritte e riscritte mille volte, tanto che ripeterle procura un senso di frustrazione. In un concetto: modernizzare il Paese attraverso le grandi riforme strutturali.

Ma qui entra in ballo la politica, attardata a regolare i conti della Seconda Repubblica, peraltro senza nemmeno comprendere che da questo drammatico default politico-istituzionale, ben peggiore di quello che portò con Tangentopoli alla fine della Prima, nessuno potrà chiamarsi fuori. Ci ha già lasciato le penne il centro-sinistra – e la contestazione squadrista prima a Schifani e ieri a Bonanni lo certificano semmai ce ne fosse stato bisogno – ce la sta lasciando il centro-destra. E non saranno le elezioni a metterci una pezza.

Ma, piaccia o non piaccia, è proprio da questo fallimento che occorre ripartire. Perciò, prima lo certifichiamo definitivamente, meglio è.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.