Dalla Cina arrivano buone notizie
Il Dragone si prepara a cambiare
Con un’operazione di riconversione economica il gigante asiatico tornerà a respirare. E anche noidi Enrico Cisnetto - 12 dicembre 2008
Per i teorici della “recessione mondiale” e della “fine del capitalismo” è stata la conferma delle loro tesi catastrofiste: le esportazioni cinesi si sono fermate, dopo sette anni di crescita ininterrotta. Segno, si è commentato, che anche il principale volano dello sviluppo planetario sta per subire la “grande depressione”, finendo esso stesso per alimentarla. Io, invece, che da anni denuncio inascoltato il declino italiano ma che, viceversa, non ho mai creduto e non credo alle evocazioni “stile 1929” per una crisi internazionale sì epocale ma nello stesso tempo salutare, sono di parere opposto: quella che viene dalla Cina è una buona notizia. No, non mi sono ammattito. Lo sanno tutti che la crescita dell’Asia, e della Cina in particolare – che dura da quasi tre decenni: è dal 1980 che il pil cinese non cresce meno del 7% annuo – finora si è basata quasi esclusivamente sull’export, e che questo ha inevitabilmente comportato gravi problemi di ordine sociale interno, vuoi perchè metà della popolazione (quella rurale) è rimasta esclusa dallo sviluppo capitalistico, vuoi perchè nell’altra metà si sono create diseguaglianze di reddito, e quindi di consumi e stili di vita, non facilmente gestibili. Fin qui le tensioni sociali sono state gestite con mezzi e metodi repressivi, ma ai dirigenti cinesi – che considero la miglior classe dirigente che il mondo a cavallo del secolo abbia saputo esprimere – non sfugge affatto – da tempo, e non per le litanie occidentali intorno al Dalai Lama – che al di là di ogni altra valutazione il combinato disposto “conflitti sociali-repressione” è una miscela esplosiva che rischia di compromettere tanto lo sviluppo economico quanto l’assetto politico-istituzionale.
Dunque, per il presidente Hu Jintao e per il premier Wen Jiabao, sarebbe comunque venuta l’ora di un cambiamento di modello di sviluppo, di cui adesso la crisi finanziaria internazionale e la conseguente recessione (breve, ma intensa) negli Stati Uniti e in Europa ha imposto una tempistica accelerata. Ma, appunto, non inattesa: la Cina sapeva da tempo che avrebbe dovuto trasferire quote crescenti di pil dalle esportazioni alla domanda interna. Sicuramente avrebbe preferito poterlo fare con gradualità, ma era preparata a doverlo fare. E lo farà. Lo ha scritto a chiare lettere ieri, su Mf, Edoardo Bertolani di Interchina Consulting: “il 2009 sarà l’anno della rivoluzione dei consumi in Cina”. Proprio così: con il piano da 600 miliardi varato recentemente, il governo cinese ha avviato una gigantesca operazione di riconversione economica – non meno difficile ma anche non meno straordinaria di quella realizzata negli ultimi 30 anni – che gli consentirà quest’anno di crescere poco sotto il 10% e nei prossimi due, quelli cruciali per la riconversione delle economie occidentali, non meno dell’8% (si dice che sotto il 6% sarebbe recessione: capisco la logica di questa affermazione, che rimane comunque un “non senso” economico).
Il che non creerà più di tanto né perdite di posti di lavoro – e comunque cominceranno forme di welfare di stile europeo – né scadimento del potere d’acquisto dei ceti urbani, in questo aiutati da un inflazione che è rientrata al 2% dopo aver superato il 10% in agosto (diciamo che per loro il controllo dei prezzi è più semplice).
Naturalmente, non sarà semplice far decollare un’operazione di questa portata, anche perchè le implicazioni di mercato (intese anche come questioni sociali, politiche, dei diritti e della democrazia) in uno sviluppo poggiato sui consumi interni sono molti più grandi e complicate di quelle sperimentate fin qui. Ma è anche una straordinaria scommessa, e chi ha saputo coniugare “partito unico” (e per di più di origini comuniste, e che tale continua a chiamarsi nonostante che di quella ideologia non ci sia rimasto, per fortuna, più niente) e “capitalismo” ha dimostrato di saperci fare con gli azzardi storici.
Ma il buon esito di questa scommessa non andrà a beneficio soltanto del gigante asiatico, sarà ossigeno per l’intera economia mondiale. Prima di tutto perché la Cina ormai rappresenta una fetta importante, anche in termini di stock e non solo di trend, dell’economia mondiale, e dunque tassi di crescita cinesi vicini alle due cifre saranno la garanzia che, per quanto grave sarà la recessione negli Usa e in Europa – e nel 2009 lo sarà – il pil mondiale potrà reggere.
E poi perchè, per quanto possa essere protezionistica – e lo sarà – la politica cinese non potrà certo chiudersi a qualunque importazione. Anche perchè i cinesi, dopo la crisi del sistema bancario anglo-americano, sono tra quelli – insieme con i paesi del Golfo – ad avere quattrini, e avranno interesse a spenderli, e non necessariamente solo in materie prime. Ma qui scatteranno selezioni all’ingresso non solo economiche. E allora si vedrà chi avrà investito giusto, in termini politico-diplomatici, e chi no. E ho paura che l’Italia sia, stupidamente, tra i cattivi.
Dunque, per il presidente Hu Jintao e per il premier Wen Jiabao, sarebbe comunque venuta l’ora di un cambiamento di modello di sviluppo, di cui adesso la crisi finanziaria internazionale e la conseguente recessione (breve, ma intensa) negli Stati Uniti e in Europa ha imposto una tempistica accelerata. Ma, appunto, non inattesa: la Cina sapeva da tempo che avrebbe dovuto trasferire quote crescenti di pil dalle esportazioni alla domanda interna. Sicuramente avrebbe preferito poterlo fare con gradualità, ma era preparata a doverlo fare. E lo farà. Lo ha scritto a chiare lettere ieri, su Mf, Edoardo Bertolani di Interchina Consulting: “il 2009 sarà l’anno della rivoluzione dei consumi in Cina”. Proprio così: con il piano da 600 miliardi varato recentemente, il governo cinese ha avviato una gigantesca operazione di riconversione economica – non meno difficile ma anche non meno straordinaria di quella realizzata negli ultimi 30 anni – che gli consentirà quest’anno di crescere poco sotto il 10% e nei prossimi due, quelli cruciali per la riconversione delle economie occidentali, non meno dell’8% (si dice che sotto il 6% sarebbe recessione: capisco la logica di questa affermazione, che rimane comunque un “non senso” economico).
Il che non creerà più di tanto né perdite di posti di lavoro – e comunque cominceranno forme di welfare di stile europeo – né scadimento del potere d’acquisto dei ceti urbani, in questo aiutati da un inflazione che è rientrata al 2% dopo aver superato il 10% in agosto (diciamo che per loro il controllo dei prezzi è più semplice).
Naturalmente, non sarà semplice far decollare un’operazione di questa portata, anche perchè le implicazioni di mercato (intese anche come questioni sociali, politiche, dei diritti e della democrazia) in uno sviluppo poggiato sui consumi interni sono molti più grandi e complicate di quelle sperimentate fin qui. Ma è anche una straordinaria scommessa, e chi ha saputo coniugare “partito unico” (e per di più di origini comuniste, e che tale continua a chiamarsi nonostante che di quella ideologia non ci sia rimasto, per fortuna, più niente) e “capitalismo” ha dimostrato di saperci fare con gli azzardi storici.
Ma il buon esito di questa scommessa non andrà a beneficio soltanto del gigante asiatico, sarà ossigeno per l’intera economia mondiale. Prima di tutto perché la Cina ormai rappresenta una fetta importante, anche in termini di stock e non solo di trend, dell’economia mondiale, e dunque tassi di crescita cinesi vicini alle due cifre saranno la garanzia che, per quanto grave sarà la recessione negli Usa e in Europa – e nel 2009 lo sarà – il pil mondiale potrà reggere.
E poi perchè, per quanto possa essere protezionistica – e lo sarà – la politica cinese non potrà certo chiudersi a qualunque importazione. Anche perchè i cinesi, dopo la crisi del sistema bancario anglo-americano, sono tra quelli – insieme con i paesi del Golfo – ad avere quattrini, e avranno interesse a spenderli, e non necessariamente solo in materie prime. Ma qui scatteranno selezioni all’ingresso non solo economiche. E allora si vedrà chi avrà investito giusto, in termini politico-diplomatici, e chi no. E ho paura che l’Italia sia, stupidamente, tra i cattivi.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.