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Sparisce il Paese povero abitato da gente ricca

Il declino comincia a impoverirci

Il reddito delle famiglie italiane è il 70% di quello Usa. Vent’anni fa eravamo all’80%

di Enrico Cisnetto - 03 maggio 2005

Il declino sta entrando direttamente nel portafoglio degli italiani. Gli stessi studi che da anni ci raccontano le difficoltà della nostra industria, ora mostrano anche gli (inevitabili) effetti negativi sul reddito di ciascuno. Nell’ultimo check-up competitività di Confindustria, infatti, si evidenzia la riduzione del reddito pro capite nazionale rispetto a quello degli Stati Uniti: se negli anni Ottanta ogni italiano, in un anno, godeva in media di una quantità di ricchezza pari all’80% di quella di un cittadino americano, oggi lo stesso rapporto è precipitato al 70%. Forse i tanti proclami sulle famiglie che non riescono ad arrivare a fine del mese con il proprio stipendio risentono della polemica politica, ma è certo che, rispetto ad altri nel mondo occidentale, la nostra capacità di creare reddito si è arrestata.

Le motivazioni sono chiare e di tipo strutturale: lavorano meno persone (-19% rispetto agli Stati Uniti) e per meno tempo (il monte ore è più basso dell’11%). Evitiamo però di cadere nella retorica del “siamo tutti più poveri”, la realtà è che l’Italia è un “paese povero” (debito pubblico) abitato da “gente ricca” (patrimonio privato). Le famiglie italiane, infatti, dispongono di un’ingente “riserva”, pari a otto volte il debito nazionale. Un patrimonio che cresce contabilmente per le rivalutazioni degli immobili e degli investimenti finanziari, ma che in realtà non è alimentato da nuovo risparmio, che gli italiani non riescono più a produrre. Risorse parcheggiate all’80% negli immobili e, per il restante 20% in strumenti finanziari. Altro indicatore di questa anomalia è la crescita della rendita degli investimenti immobiliari (+5%), rispetto al pil (+1,2%). Una tendenza che attutisce la sensazione di impoverimento, vista la rivalutazione del mattone, ma che riduce le possibilità di crescita del Paese: l’effetto bene-rifugio finisce per convogliare tutto il capitale disponibile in forme illiquide di risparmio e allontanarlo dagli investimenti produttivi.

La “ricchezza stagnante” – e per lo più virtuale vista la preponderanza di prime case che non finiranno sul mercato – serve al mantenimento del tenore di vita (i consumi crescono più dell’inflazione, anche se di poco), ma anche qui gli effetti virtuosi sono limitati. A causa della scarsa competitività delle merci italiane, si finisce solo per far aumentare le importazioni. Il circolo vizioso è completo: cattive performance dell’economia creano incertezza nei consumatori che intensificano le scelte difensive, penalizzando ulteriormente le possibilità di creazione di nuovo reddito. Insomma, l’Italia è raffigurabile come un cammello, che dispone di cospicue riserve ma è comunque destinato a soccombere se non riesce a ricostituirle. Allo stesso modo la “gobba” delle riserve patrimoniali italiane si sta riducendo: nel 2004 circa la metà delle famiglie italiane – dice la Fondazione Einaudi – non è riuscita a risparmiare nulla. Il declino, visto da quest’ottica, non è un problema di istituzioni, grandi imprese o poteri forti, ma una minaccia al bilancio di ogni famiglia. Per sventarla bisogna rispondere a questa domanda: qual è il modo virtuoso per trasformare questo grande patrimonio immobile in risorse a favore dello sviluppo? Se lo chiedano i politici, ma anche tutti gli italiani quando li votano.

(L’articolo è stato pubblicato sul Messaggero del 1° maggio)

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.