L'editoriale di Società Aperta
Il coraggio della discontinuità
Il governo non si lasci bloccare dai partiti proprio quando nel Pd e Pdl prevalgono lotte intestine di vecchio coniodi Enrico Cisnetto - 06 luglio 2013
Prima scena: il governo appare sempre più condizionato dai partiti. Seconda sequenza: aumenta in modo esponenziale il tasso di conflitto interno a Pd e Pdl. Sembrano, e sono, due tendenze in contraddizione tra loro, eppure convivono e formano il contesto – negativo – in cui si muove la politica italiana in questo momento. Un brutto film. Perché l’esecutivo, nonostante i buoni risultati ottenuti in Europa – anche se l’ennesima presa di posizione di Draghi vale cento volte il piccolissimo margine di manovra sui conti pubblici ottenuto con la chiusura della procedura d’infrazione – non riesce ad imprimere alla sua azione quella forza che sarebbe necessaria sia per prendere le decisioni straordinarie di cui il Paese ha necessità e urgenza, sia per giustificare la maggioranza d’emergenza che, seppure con ritardo e inutili convulsioni, ha fatto seguito al risultato elettorale e alla riconferma di Napolitano al Quirinale. Impatto che, mancando, lascia inevitabilmente spazio a tutti i rigurgiti dei partiti, a cominciare da quelli più deleteri.
E qui il film, oltre che inguardabile, è pure già visto. Perché è lo stesso fenomeno che si è verificato con Monti: dopo la partenza “forte” con la riforma delle pensioni, via via che il Professore lasciava campo alla mediazione – interna al governo stesso, con i partiti, con le forze sociali – aumentava la pressione degli shareholders che invece, inizialmente, sotto choc per le circostanze che avevano portato Monti a Palazzo Chigi, erano del tutto acquiescenti. Dunque, così come Monti vedeva crescere l’invadenza dei partiti perché diminuiva la sua capacità decisionale – e non viceversa, come amava raccontare – così Letta, preoccupato di non mettere in moto dinamiche portatrici di instabilità, rischia di ottenere l’effetto contrario perché al basso tasso decisionale dell’esecutivo corrisponde inevitabilmente l’alto tasso di influenza esercitata dai partiti stessi.
Il fatto è, però, che tutto questo accade in un contesto di altissima conflittualità interna sia nel Pd che nel Pdl. Nei Democratici non è stata ancora digerita la rottura su Bersani e già si è riaperta, nel peggiore dei modi, la corsa alla segreteria – mista, senza alcuna ragione logica, a quella per la prossima premiership (quando ci sarà…) – con una discussione ancora una volta stucchevolmente incentrata sulle modalità di svolgimento delle primarie. Cosa che ovviamente nasconde le peggiori nefandezze dal punto di vista della competizione tra persone e gruppi più o meno organizzati in correnti. Renzi – a nostro avviso sbagliando – sembra prestarsi per la seconda volta a questa sceneggiatura, il che finisce per rendere sempre meno praticabile la creazione di un soggetto politico riformista non prigioniero dei tanti (troppi) estremisti e giustizialisti che allignano a sinistra. Il Pd si avvia così al congresso di autunno prigioniero di quella palude politico-culturale in cui è immerso da sempre e di quella pratica politica quotidiana fatta di modalità burocratiche e di linguaggio recitativo stile “politically correct” che lo rendono “indeciso a tutto”.
Non sta meglio il Pdl. Il fuoco giudiziario cui è sottoposto Berlusconi, e le reazioni che la cosa suscita nel ventre molle degli aficionados, cui si aggiungono quelli che, non essendo stati chiamati al governo non hanno alcun interesse a tutelarlo dalle turbolenze partitiche, finiscono per scaricare sull’esecutivo tensioni che a loro volta rimbalzano dentro il partito e colpiscono chi, invece, intende difendere questo governo e più in generale l’esperienza della grande coalizione. In gioco non c’è tanto l’oggi, quanto il domani, allorquando le vicende del Cavaliere lo renderanno inservibile alla politica. Il rispolverare il vecchio marchio di Forza Italia, la divisione tra falchi e colombe, la minacciata creazione di una nuova “cosa nera” a destra, sono tutti sintomi che ci si sta giocando – o, per meglio dire, che si crede di giocarsi – il “dopo Berlusconi”.
Quale esito questa partita possa avere è difficile, se non impossibile, dire, considerato che le variabili in gioco sono tante e quasi tutte di natura extra-politica. Per esempio: esiste o no l’ipotesi di un passaggio generazionale Silvio-Marina di cui si vocifera? Trattandosi di un soggetto politico (si fa fatica a chiamarlo partito) “padronale”, la cosa ha una sua logica oltre che probabilità. Ma è evidente che il suo verificarsi o meno sfugge a qualsiasi dinamica politica, e riguarda esclusivamente la sfera dei fatti personali. In tutti i casi, anche tali fibrillazioni trasmettono al governo scosse che finiscono per impegnare Letta – abilissimo in questo – a spendere tempo ed energie per evitare che queste, come quelle provenienti dal suo partito, si trasmettano al governo. Ma, gatto che si morde la coda, se il governo si occupa in primis di questo finisce per non fare il governo.
Come uscirne? Con un timore e un auspicio. Il timore è che presto, nonostante il quadro europeo più rassicurante il prolungarsi della recessione e le incompatibilità che i provvedimenti auspicati a destra e a sinistra finiranno per avere sulla finanza pubblica, sarà ancora una volta la forza dirompente della crisi economica e finanziaria a travolgere ogni attendismo e prudenza, costringendo anche i più renitenti a fare ciò che finora non hanno fatto. È un timore, certo, perché vorrebbe dire che il quadro sarebbe nuovamente nero, ma forse potrebbe anche essere che non tutto quel male verrebbe per nuocere.
L’auspicio, invece, è che le forze destinate a uscire perdenti dagli scontri interni a Pd e Pdl – e segnatamente i riformisti e i moderati – trovino il coraggio e l’energia di rinunciare alle rispettive battaglie intestine – ripetiamo: dalle quali usciranno perdenti – per impegnarsi nella creazione di nuovi soggetti politici, capaci di ridare dignità alla politica e speranza agli italiani. La Terza Repubblica o si fa producendo discontinuità o non si fa.
E qui il film, oltre che inguardabile, è pure già visto. Perché è lo stesso fenomeno che si è verificato con Monti: dopo la partenza “forte” con la riforma delle pensioni, via via che il Professore lasciava campo alla mediazione – interna al governo stesso, con i partiti, con le forze sociali – aumentava la pressione degli shareholders che invece, inizialmente, sotto choc per le circostanze che avevano portato Monti a Palazzo Chigi, erano del tutto acquiescenti. Dunque, così come Monti vedeva crescere l’invadenza dei partiti perché diminuiva la sua capacità decisionale – e non viceversa, come amava raccontare – così Letta, preoccupato di non mettere in moto dinamiche portatrici di instabilità, rischia di ottenere l’effetto contrario perché al basso tasso decisionale dell’esecutivo corrisponde inevitabilmente l’alto tasso di influenza esercitata dai partiti stessi.
Il fatto è, però, che tutto questo accade in un contesto di altissima conflittualità interna sia nel Pd che nel Pdl. Nei Democratici non è stata ancora digerita la rottura su Bersani e già si è riaperta, nel peggiore dei modi, la corsa alla segreteria – mista, senza alcuna ragione logica, a quella per la prossima premiership (quando ci sarà…) – con una discussione ancora una volta stucchevolmente incentrata sulle modalità di svolgimento delle primarie. Cosa che ovviamente nasconde le peggiori nefandezze dal punto di vista della competizione tra persone e gruppi più o meno organizzati in correnti. Renzi – a nostro avviso sbagliando – sembra prestarsi per la seconda volta a questa sceneggiatura, il che finisce per rendere sempre meno praticabile la creazione di un soggetto politico riformista non prigioniero dei tanti (troppi) estremisti e giustizialisti che allignano a sinistra. Il Pd si avvia così al congresso di autunno prigioniero di quella palude politico-culturale in cui è immerso da sempre e di quella pratica politica quotidiana fatta di modalità burocratiche e di linguaggio recitativo stile “politically correct” che lo rendono “indeciso a tutto”.
Non sta meglio il Pdl. Il fuoco giudiziario cui è sottoposto Berlusconi, e le reazioni che la cosa suscita nel ventre molle degli aficionados, cui si aggiungono quelli che, non essendo stati chiamati al governo non hanno alcun interesse a tutelarlo dalle turbolenze partitiche, finiscono per scaricare sull’esecutivo tensioni che a loro volta rimbalzano dentro il partito e colpiscono chi, invece, intende difendere questo governo e più in generale l’esperienza della grande coalizione. In gioco non c’è tanto l’oggi, quanto il domani, allorquando le vicende del Cavaliere lo renderanno inservibile alla politica. Il rispolverare il vecchio marchio di Forza Italia, la divisione tra falchi e colombe, la minacciata creazione di una nuova “cosa nera” a destra, sono tutti sintomi che ci si sta giocando – o, per meglio dire, che si crede di giocarsi – il “dopo Berlusconi”.
Quale esito questa partita possa avere è difficile, se non impossibile, dire, considerato che le variabili in gioco sono tante e quasi tutte di natura extra-politica. Per esempio: esiste o no l’ipotesi di un passaggio generazionale Silvio-Marina di cui si vocifera? Trattandosi di un soggetto politico (si fa fatica a chiamarlo partito) “padronale”, la cosa ha una sua logica oltre che probabilità. Ma è evidente che il suo verificarsi o meno sfugge a qualsiasi dinamica politica, e riguarda esclusivamente la sfera dei fatti personali. In tutti i casi, anche tali fibrillazioni trasmettono al governo scosse che finiscono per impegnare Letta – abilissimo in questo – a spendere tempo ed energie per evitare che queste, come quelle provenienti dal suo partito, si trasmettano al governo. Ma, gatto che si morde la coda, se il governo si occupa in primis di questo finisce per non fare il governo.
Come uscirne? Con un timore e un auspicio. Il timore è che presto, nonostante il quadro europeo più rassicurante il prolungarsi della recessione e le incompatibilità che i provvedimenti auspicati a destra e a sinistra finiranno per avere sulla finanza pubblica, sarà ancora una volta la forza dirompente della crisi economica e finanziaria a travolgere ogni attendismo e prudenza, costringendo anche i più renitenti a fare ciò che finora non hanno fatto. È un timore, certo, perché vorrebbe dire che il quadro sarebbe nuovamente nero, ma forse potrebbe anche essere che non tutto quel male verrebbe per nuocere.
L’auspicio, invece, è che le forze destinate a uscire perdenti dagli scontri interni a Pd e Pdl – e segnatamente i riformisti e i moderati – trovino il coraggio e l’energia di rinunciare alle rispettive battaglie intestine – ripetiamo: dalle quali usciranno perdenti – per impegnarsi nella creazione di nuovi soggetti politici, capaci di ridare dignità alla politica e speranza agli italiani. La Terza Repubblica o si fa producendo discontinuità o non si fa.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.