La giustizia italiana ha più pezze che stoffa
Il caos “pentiti”
Per riformare il sistema giudiziario ci vuole ben altrodi Davide Giacalone - 03 febbraio 2010
I “pentiti” sarebbero dovuti essere uno strumento nelle mani della giustizia, stanno diventando un sistema per radere al suolo quel poco che ne rimane. Alcuni di loro tentano l’imitazione di Ali Agca: so tutto e con le mie parole posso cambiare la sorte del mondo. La differenza sta nel fatto che il lupo grigio, se vuole, lo mandiamo all’isola dei famosi, mentre le parole di questi criminali possono mandare gli altri alle isole di Pianosa e dell’Asinara.
Se si depura il dibattito parlamentare dalle inutili decorazioni polemiche, e si guarda alla sostanza, ci si accorge che, in materia di giustizia, si è tornati a procedere guardando alle cose minori, o, se preferite, strumentali, perdendo di vista le maggiori. Insomma, non sarà un gran risultato quando si saranno approvati il processo breve e il legittimo impedimento, bloccando così i processi in capo al presidente del Consiglio, ma resterà possibile descriverlo come un mafioso in servizio permanente effettivo. Se fosse vero, dovrebbe essere condannato e se, come penso, è falso, dovremmo evitare d’essere collettivamente diffamati.
Il ministro Alfano, che ha già per le mani due patate bollenti, s’è affrettato a liquidare, avversandole, le proposte del senatore Giuseppe Valentino. Noi, invece, abbiamo letto le parole del capogruppo senatoriale del Pd, Anna Finocchiaro, che è persona assai bene informata sui fatti di giustizia, e ci siamo impressionati. Ella afferma che se divenisse legge la riforma degli articoli 192 e 195 del codice di procedura penale, tutti i processi di mafia salterebbero e anche le sentenze di condanna dovrebbero essere riviste. Oibò, che roba è? Sono in ballo due punti rilevanti. Il primo (192) riguarda la presenza o meno di prove: se un fatto non è provato è come se non esistesse, ma può costituire prova che ci siano indizi “gravi, precisi e concordanti”. In altre parole: se il Tizio, il Caio e il Sempronio vengono a raccontare la stessa storia, con gli stessi particolari, siamo portati a crederci. Già, ma se i tre sono dei delinquenti e si sono messi d’accordo? O, peggio, se sono tre detenuti, cui qualcuno ha suggerito la stessa storia, per avere dei benefici? Chiedere che ci sia almeno una prova, un riscontro, che avvalori le loro parole, non sarebbe che portare nella legge il metodo che usava Giovanni Falcone, non a caso avversato dai professionisti dell’antimafia.
Il secondo punto (195) riguarda l’eventualità che ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possano riferire, in aula, di cose apprese da terzi che, però, non possono essere chiamati a testimoniare (sono morti, o si rifiutano). Si può discutere sull’opportunità che riferiscano, ma se l’avvocato difensore non può controinterrogare nessuno, perché le parole pronunciate sono attribuite ad un fantasma, che razza di processo è?
Torniamo alla Finocchiaro: se fosse vero che, imponendo l’esistenza di almeno una prova, salterebbero tutti i processi di mafia, ne deriverebbe che tutti quei processi vanno avanti senza prove, fino a sentenza. Sono sedute spiritiche, non processi. E non credo proprio che si possa chiudere un occhio, in nome del supremo interesse della lotta contro la mafia, perché in questo modo, tutto al contrario, ci si consegna nelle mani dei mafiosi, che hanno da tempo scoperto un’arma micidiale, oltre che un terreno di baratto per sfuggire ai rigori della detenzione.
Spatuzza ha già dato bella mostra di sé. Ora è il turno di Massimo Ciancimino che, al di là di ogni altra considerazione, sta cercando di descrivere il padre Vito come un totale demente, che porta nella tomba i segreti, pagando il prezzo del silenzio, ma prima li confida al figlio inaffidabile, in modo che possa raccontarli a tutti. Delle due l’una: o non ci sono più i mafiosi di una volta, o qui c’è una giustizia che si lascia menare per il naso, salvo chiedere prestazioni a gettone ad un figlio di delinquente che è delinquente egli stesso, il quale cerca di salvare l’unica cosa che sa contare, i soldi. In ogni caso, mi sta anche bene, pure uno Spatuzza o un Ciancimino possono essere utili. Però, che diamine, purché ci sia una prova, un riscontro, qualche cosa che non ci costringa tutti a credere sulla parola a dei disonorati. Ecco, questo è il tema. Lo ripeto: Giovanni Falcone si atteneva a questa condotta, perché la legge già lo prevedeva. Come lo prevede.
Ma siccome è invalsa l’abitudine, che quand’è togata si chiama “giurisprudenza”, di accontentarsi delle parole, il tema posto non è affatto irrilevante. Si discuta su come risolverlo, ma non è discutibile che esista e sia rilevante. Dice il ministro Alfano: non è nel programma di governo. E’ vero. Neanche il terremoto, ma non è un buon motivo per ignorarlo. Stia attento, perché questa è la cattiva regola del centro destra, quando si maneggia la giustizia: ci si occupa solo di quel che è immediatamente necessario, in un determinato processo, salvo poi accorgersi che tappato un buco s’apre una voragine, che crea una nuova emergenza e, quindi, un nuovo provvedimento tampone. Così procedendo, la giustizia italiana ha più pezze che stoffa.
Pubblicato da Libero
Se si depura il dibattito parlamentare dalle inutili decorazioni polemiche, e si guarda alla sostanza, ci si accorge che, in materia di giustizia, si è tornati a procedere guardando alle cose minori, o, se preferite, strumentali, perdendo di vista le maggiori. Insomma, non sarà un gran risultato quando si saranno approvati il processo breve e il legittimo impedimento, bloccando così i processi in capo al presidente del Consiglio, ma resterà possibile descriverlo come un mafioso in servizio permanente effettivo. Se fosse vero, dovrebbe essere condannato e se, come penso, è falso, dovremmo evitare d’essere collettivamente diffamati.
Il ministro Alfano, che ha già per le mani due patate bollenti, s’è affrettato a liquidare, avversandole, le proposte del senatore Giuseppe Valentino. Noi, invece, abbiamo letto le parole del capogruppo senatoriale del Pd, Anna Finocchiaro, che è persona assai bene informata sui fatti di giustizia, e ci siamo impressionati. Ella afferma che se divenisse legge la riforma degli articoli 192 e 195 del codice di procedura penale, tutti i processi di mafia salterebbero e anche le sentenze di condanna dovrebbero essere riviste. Oibò, che roba è? Sono in ballo due punti rilevanti. Il primo (192) riguarda la presenza o meno di prove: se un fatto non è provato è come se non esistesse, ma può costituire prova che ci siano indizi “gravi, precisi e concordanti”. In altre parole: se il Tizio, il Caio e il Sempronio vengono a raccontare la stessa storia, con gli stessi particolari, siamo portati a crederci. Già, ma se i tre sono dei delinquenti e si sono messi d’accordo? O, peggio, se sono tre detenuti, cui qualcuno ha suggerito la stessa storia, per avere dei benefici? Chiedere che ci sia almeno una prova, un riscontro, che avvalori le loro parole, non sarebbe che portare nella legge il metodo che usava Giovanni Falcone, non a caso avversato dai professionisti dell’antimafia.
Il secondo punto (195) riguarda l’eventualità che ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possano riferire, in aula, di cose apprese da terzi che, però, non possono essere chiamati a testimoniare (sono morti, o si rifiutano). Si può discutere sull’opportunità che riferiscano, ma se l’avvocato difensore non può controinterrogare nessuno, perché le parole pronunciate sono attribuite ad un fantasma, che razza di processo è?
Torniamo alla Finocchiaro: se fosse vero che, imponendo l’esistenza di almeno una prova, salterebbero tutti i processi di mafia, ne deriverebbe che tutti quei processi vanno avanti senza prove, fino a sentenza. Sono sedute spiritiche, non processi. E non credo proprio che si possa chiudere un occhio, in nome del supremo interesse della lotta contro la mafia, perché in questo modo, tutto al contrario, ci si consegna nelle mani dei mafiosi, che hanno da tempo scoperto un’arma micidiale, oltre che un terreno di baratto per sfuggire ai rigori della detenzione.
Spatuzza ha già dato bella mostra di sé. Ora è il turno di Massimo Ciancimino che, al di là di ogni altra considerazione, sta cercando di descrivere il padre Vito come un totale demente, che porta nella tomba i segreti, pagando il prezzo del silenzio, ma prima li confida al figlio inaffidabile, in modo che possa raccontarli a tutti. Delle due l’una: o non ci sono più i mafiosi di una volta, o qui c’è una giustizia che si lascia menare per il naso, salvo chiedere prestazioni a gettone ad un figlio di delinquente che è delinquente egli stesso, il quale cerca di salvare l’unica cosa che sa contare, i soldi. In ogni caso, mi sta anche bene, pure uno Spatuzza o un Ciancimino possono essere utili. Però, che diamine, purché ci sia una prova, un riscontro, qualche cosa che non ci costringa tutti a credere sulla parola a dei disonorati. Ecco, questo è il tema. Lo ripeto: Giovanni Falcone si atteneva a questa condotta, perché la legge già lo prevedeva. Come lo prevede.
Ma siccome è invalsa l’abitudine, che quand’è togata si chiama “giurisprudenza”, di accontentarsi delle parole, il tema posto non è affatto irrilevante. Si discuta su come risolverlo, ma non è discutibile che esista e sia rilevante. Dice il ministro Alfano: non è nel programma di governo. E’ vero. Neanche il terremoto, ma non è un buon motivo per ignorarlo. Stia attento, perché questa è la cattiva regola del centro destra, quando si maneggia la giustizia: ci si occupa solo di quel che è immediatamente necessario, in un determinato processo, salvo poi accorgersi che tappato un buco s’apre una voragine, che crea una nuova emergenza e, quindi, un nuovo provvedimento tampone. Così procedendo, la giustizia italiana ha più pezze che stoffa.
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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