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L'emblema piemontese

Il caos dell'Italia che va...

È ora di tornare alla civiltà. Giuridica, politica e umana

di Davide Giacalone - 19 ottobre 2010

Quel che accade in Piemonte, con il serio rischio d’invalidare le elezioni regionali, raffigura bene il caos nel quale vive l’intero Paese. Il rapporto fra giustizia e politica è una maionese impazzita, non solo per i procedimenti che riguardano Silvio Berlusconi. Quella maionese, grumosa e immangiabile, c’inzacchera tutti, anche se a molti sfugge il nesso fra le grandi e le piccole cose.

La nostra vita civile, il nostro lavoro e la nostra politica sono guastati da leggi illeggibili, incomprensibili, inapplicabili, cui si aggiunge una giustizia che sentenzia una cosa e il suo contrario, facendo divenire aleatorio il diritto e inafferrabili i diritti. Anziché porre rimedio si continua a dar la colpa agli altri: per la magistratura la colpa ricade sul legislatore, per la politica sono i giudici a volere far di testa loro, applicando la legge ciascuno a modo proprio. Hanno ragione entrambe.

Prendete le elezioni piemontesi. Se si fossero contestati e accertati dei brogli elettorali, non ci sarebbe dubbio: gli autori materiali dovrebbero pagare con la galera e l’eletto sarebbe il loro mandante. Facile. Ma non è questo il caso. In realtà la Regione Piemonte (quando la maggioranza era di sinistra) s’è data una legge elettorale in base alla quale le firme in calce alle liste non devono essere raccolte se un capogruppo uscente garantisce la regolarità e fondatezza del tutto. E’ ragionevole. Lo è meno che egli possa fare la stessa operazione anche per liste in cui non figura e non si candida. Questa, comunque, è la legge.

Dei giudici affermano che è stata rispettata, mentre altri la pensano diversamente, individuando una via d’uscita apparentemente equanime, in realtà folle: siccome due liste hanno caratteristiche (in questo senso) dubbie, e dato che una era apparentata con la sinistra mentre l’altra con la destra, le facciamo fuori in coppia. Giusto? No, in quanto gli elettori hanno votato esprimendo la loro volontà, che è chiarissima e segue l’ammissione di quelle stesse liste, sicché non si vede perché debbano essere buttati via, come fossero avariati e, inoltre, il peso percentuale delle due liste è diverso, per cui il risultato non è quello di una decurtazione equivalente, ma di una sottrazione maggiore per lo schieramento che ha vinto (di poco) le elezioni. Risultato: il vincitore diventa perdente e la volontà popolare annientata.

Al caso specifico si dovrà rimediare, e non è escluso che lo si faccia nel meno razionale dei modi, tornando a votare. Siccome, però, l’ultima tornata amministrativa è colma di casi simili, con alcuni procedimenti ancora pendenti, si deve pensare ad un rimedio complessivo. Altrimenti, la prossima volta, andiamo a votare direttamente in tribunale.

La questione non è affatto limitata alla politica e alle verifiche elettorali, perché questo schema d’incertezza e di rimedi che non rimediano si riproduce ovunque, ogni giorno, anche se nessuno se ne cura, nessuno ritiene che sia inaccettabile, proponendosi d’intervenire con urgenza. Le sentenze che si contraddicono sono la normalità, dalle liti condominiali ai più clamorosi casi che si trovano sulle prime pagine dei giornali. C’è chi dice che ciò dimostra il sano funzionamento della giustizia e l’indipendente agire dei giudici, che non sono una falange omogenea. Bubbole, si dimostra solo che nessuno ci capisce più niente.

I nostri tribunali sono infognati in arretrati non smaltibili, e gli italiani si dimostrano litigiosissimi, per tre banali ragioni: 1. le leggi sono cabale (vogliamo parlare di quelle fiscali?!); 2. tutti fanno ricorso contro la prima sentenza perché non solo può darsi, ma è ampiamente probabile che sia ribaltata; 3. i colpevoli e quelli che hanno torto ne godono, perché l’allungarsi spropositato e incivile dei tempi è un premio alla loro cattiva condotta.

Passiamo ai rimedi. Eccone alcuni: a. le sentenze penali d’assoluzione non devono potere essere appellate dall’accusa, perché sarà impossibile condannare al di là di ogni ragionevole dubbio (anche la sentenza della Corte Costituzionale lo consente, ma chiedendo una riforma complessiva dell’appellabilità); b. devono essere redatti tanti testi unici quante sono le materie specificamente regolate, il cittadino deve trovare un articolato in cui leggere tutto, senza essere rinviato ad un pazzotico gioco di citazioni e soppressioni; c. la Cassazione deve realmente tutelare l’uniformità della giurisprudenza, cui ciascun giudice è tenuto ad attenersi; d. i giudici le cui sentenze vengono costantemente riformate devono cambiare mestiere; e. i pubblici ministeri le cui richieste di condanna vengono regolarmente disattese devono essere allontanati da quella funzione; f. i cittadini che scelgono riti alternativi, ammettendo colpe o torti, devono essere premiati, ferma restando, naturalmente, la punizione o sanzione; h. quelli che fanno ricorso devono essere ragionevolmente fiduciosi di avere ragione, perché l’impegnare ulteriormente la macchina giudiziaria deve essere costoso (in quattrini o pena); i. i tempi previsti dalle leggi devono sempre essere inderogabili, per i cittadini come per i magistrati.

Non è tutto, ma basterebbe per rientrare nella civiltà. Giuridica, politica e umana. Grande riforma? Più che altro: minima ragionevolezza.

Pubblicato da Libero

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