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Public Policy

La partecipazione di maggioranza assoluta del sindacato Uaw

Il bonum societatis

Si avverte l’esigenza di una calibrata riforma legislativa dell’ordinamento delle banche

di Angelo De Mattia - 05 maggio 2009

E’ una partecipazione di maggioranza assoluta alla proprietà, quella del sindacato Uaw, che riceverà, dopo la fase di amministrazione controllata, il 55 per cento delle azioni della nuova Chrysler, come corrispettivo dei diritti vantati da Veba, il fondo per l’assistenza sanitaria dei lavoratori. Ma a questa partecipazione corrisponderà una presenza, in rappresentanza di Veba, assolutamente minoritaria – una sola persona su 9 componenti – nel Consiglio di amministrazione della società. Ricorda la partecipazione del “pubblico”, titolare della maggioranza assoluta, agli organi di Mediobanca in forma nettamente minoritaria, prima della privatizzazione.

Trattandosi di una interessenza che si viene ad assumere da Uaw-Veba per superare la crisi aziendale e come contropartita di crediti riconosciuti, è molto difficile inquadrarla negli schemi classici della cogestione o della codeterminazione o della partecipazione agli utili ovvero, ancora, nelle altre forme di partecipazione o negli stessi tentativi in Italia e nelle esperienze estere – opportunamente richiamati su queste colonne da Michele Magno – per l’adozione del “piano di impresa”, con il concorso del sindacato. E tuttavia, appare corretta la previsione di una sola presenza nel Consiglio, per la tutela dell’investimento.

Con la soluzione conseguita, che mette giustamente al primo posto il bonum societatis, con la continuità aziendale e la tutela del lavoro, resta intatta la possibilità della dialettica tra le parti sociali. Altra cosa è la cogestione, nelle sue varie forme, che potrebbe prescindere dal possesso di azioni, prevedendo, per esempio, una fisiologica presenza dei rappresentanti sindacali nei Consigli di sorveglianza. Altra cosa, ancora, è la partecipazione agli utili societari che potrebbe, anch’essa, fare astrazione dalla titolarità di quote azionarie.

Che in sede di riflessione sulle relazioni industriali sia opportuno tornare a esaminare, nel quadro delle tematiche della democrazia industriale e della democrazia economica, ipotesi partecipative dei lavoratori anche come antidoto ai fenomeni di crisi aziendali ed economiche, non dovrebbe esservi dubbio. Si tratta di riprendere la mole delle analisi svolte su questo tema soprattutto negli anni ’80 e tornare a riflettere sull’evoluzione dei sistemi di governance, a partire dal modello dualistico nel frattempo introdotto nel nostro ordinamento.

Pur in presenza delle attuali difficoltà e dei non facili rapporti interconfederali, a una tale disamina dovrebbe esservi, in Italia, un interesse esteso delle parti sociali, del Governo, delle istituzioni interne (e internazionali). Schemi di compartecipazione, innovati, potrebbero essere un modo per rimediare in parte al vuoto lasciato da una politica dei redditi (tutti i redditi) e non necessariamente dovrebbero contemplare il ritorno a una visione neocorporatista a livello centrale. Sarebbe però una decisa riduzione della portata di questa disamina l’assunzione come qualcuno vorrebbe, quale esempio da seguire, del modello Banca Popolare di Milano che prevede che il sindacato organizzi il voto dei dipendenti-soci, con la formazione della lista di maggioranza che risulta vincente nella composizione degli organi deliberativi e di controllo, com’è accaduto con la elezione a Presidente di Massimo Ponzellini.

Non è certo una innovazione recente. Si fonda su di una lunga tradizione. Ma, soprattutto, si basa sul principio del voto capitario, a prescindere dalle azioni possedute. Alla fin fine, ciò favorisce la presenza nelle assemblee dei dipendenti che sono anche soci dell’azienda, ma costituiscono una nettissima minoranza rispetto agli altri soci e ai detentori di quote capitali. E’ l’inverso del caso Chrysler.

Difficile considerarlo un esempio, a tutto tondo, di democrazia economica. Dalla vicenda della Popolare – che ora ci si augura operi efficacemente, dopo la battaglia elettorale, con spirito unitario – discende l’esigenza di una calibrata riforma legislativa dell’ordinamento delle banche della categoria, se non vi sarà un’autoriforma, lungo le linee indicate da Bankitalia. Distingue frequenter. L’impegno per un programma di democrazia economica è altra cosa. Anche la crisi globale insegna che sarebbe importante cimentarsi con una tale opera.

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