Una strumentalizzazione politica fuori tempo
IL 25 aprile del Cavaliere
L’oggetto misterioso del berlusconismo alle prese con le vecchie culturedi Elio Di Caprio - 21 aprile 2009
E’ una ben misera polemica quella sull’opportunità che Silvio Berlusconi partecipi alle celebrazioni del 25 aprile. Avrà egli il coraggio di disertare le cerimonie previste per stare vicino ai terremotati, come fa da settimane? La nuova parola d’ordine del PD di Dario Franceschini è quella di non dare tregua al Cavaliere per coglierlo finalmente in fallo su un argomento “sensibile” che riguarda la memoria divisa degli italiani sugli avvenimenti di 65 anni fa. Tanto meglio se poi anche la sinistra estrema si allineerà e farà la sua parte.
Ma che senso ha ancora strumentalizzare alla lotta politica un tema così delicato? Magari per dimostrare che Berlusconi ha la coda di paglia quasi fosse un piccolo Mussolini? Ma ce lo immaginiamo per assurdo, se non abbiamo il minimo senso del ridicolo, il redivivo Cavaliere che dopo un quindicennio di successi politici, voglia berlusconizzare l’Europa così come voleva fare il Mussolini del decennale della “rivoluzione fascista” quando si diceva sicuro che oltre l’Italia l’intera Europa sarebbe diventata fascista o fascistizzata nel giro dei dieci anni a venire? Eppure sembra irresistibile la voglia di creare collegamenti e paragoni che di storico hanno ben poco.
Il berlusconismo o quello che viene definito come tale sfugge, nonostante gli sforzi e gli anatemi della sinistra, ad una definizione precisa che lo ricolleghi al nostro passato, al massimo può essere ricondotto ad alcune costanti delle nostre pulsioni collettive che nelle sue espressioni di punta già facevano storcere il naso ai vecchi azionisti o addirittura agli ex fascisti delusi da come si comportarono gli italiani dopo l’8 settembre del 1943. Ancora non sappiamo come si evolverà la fase storica che stiamo vivendo, è un cantiere aperto che può riservare mille sorprese (e confusioni), ma sicuramente solleverà l’interesse dei posteri come una svolta- imprevista come sempre- di costume nazionale se non di cultura. Anche questo periodo però si inserisce a pieno titolo- è un fatto, non una valutazione - nella nostra continuità nazionale come espressione dei tempi che corrono.
Ma prima di analizzare un fenomeno ancora in corso è bene fare i conti con i tanti conformismi che hanno caratterizzato e condizionato il pensare collettivo degli ultimi da sessanta anni e più, a partire proprio dal significato del 25 aprile e della lotta di Liberazione. Non saremmo ancora qui a discutere sulle date se avessimo avuto in passato qualche dose di coraggio analitico in più. Se si fosse ammesso in tempo che è esistito un periodo di consenso popolare al regime mussoliniano (le analisi di Renzo De Felice in proposito sono ora universalmente accettate), se si fosse definita in tempo la Resistenza come guerra civile (secondo le ammissioni ritardate dello storico comunista Claudio Pavone) se i Giampaolo Pansa si fossero svegliati prima a denunciare gli eccidi perpetrati dai partigiani comunisti a guerra finita, passando per le foibe del Maresciallo Tito, anche il nostro comune lessico politico sarebbe cambiato, per non dire il nostro stesso immaginario collettivo.
Se tutto ciò fosse avvenuto non si sarebbe parlato con tanta leggerezza né delle fogne in cui ricacciare gli sconfitti, né della Resistenza tradita ( una guerra civile può essere mai tradita?) da riscattare con la lotta armata degli anni ’70 in una lunga stagione di terrorismo che non ha risparmiato né i democristiani e né i comunisti d’apparato.
Sono argomenti scomodi al “politically correct”, che non varrebbe neppure la pena di riprendere per non farne appunto oggetto di strumentalizzazione politica. Ma se poi la riflessione si allarga ai contenuti ed agli schieramenti di più di mezzo secolo fa, gli argomenti da dibattere sarebbero tanti per le infinite commistioni, interconnessioni, confusioni che hanno contrassegnato la nostra storia recente proprio con riguardo al significato del 25 aprile come resa dei conti con il regime fascista. Abbiamo avuto, per cominciare, una Chiesa che dopo venti anni di complicità con il “regime” è divenuta essa stessa potere politico indispensabile del dopo guerra, unico bastione anticomunista.
Ci ha governato una classe politica cattolica che ha espresso tra i suoi maggiori esponenti le figure di Aldo Moro e Amintore Fanfani, due personaggi – soprattutto quest’ultimo -che avevano manifestato precise assonanze con il regime corporativo. Né si può dimenticare che lo stesso Palmiro Togliatti, il primo capo del PCI, aveva accettato di inserire nella Costituzione i Patti Lateranensi, salvo poi prendersela con la DC rappresentata come una reincarnazione del fascismo reazionario.
Si inserisce nella nostra storia lo stesso successo popolare dei comunisti italiani nel dopo guerra che non sarebbe stato così grande, a scapito degli stessi socialisti, se Togliatti non avesse ereditato l’humus adatto e non si fosse valso nel dopo guerra di stati d’animo estremisti a lungo sedimentati grazie alla propaganda fascista su scorciatoie rivoluzionarie possibili grazie alla guida di un uomo o di un partito che governa e pensa per gli altri, in questo caso in nome e per conto della classe operaia.
Luca Ricolfi, su un altro versante, in una recente riflessione che ha acceso un interessante dibattito con altri analisti, ha imputato i ritardi italiani, le sue incrostazioni burocratiche diffuse, gli egoismi delle categorie che si auto proteggono, ai lasciti delle tre culture dominanti in Italia, quella fascista, quella cattolica e quella comunista.
E’ un’interpretazione plausibile che riguarda alcuni aspetti della nostra ultima storia e sembra che neanche il “berlusconismo” possa discostarsi più di tanto dal passato per far avanzare una cultura e una prassi nuovi.
Ma proprio perché quella di Ricolfi è un’analisi di “genetica culturale” che coglie alcuni tratti di verità, risulta ancora più assurdo e fuori tempo che Franceschini ed altri richiamino emotivamente le divisioni del passato, costringendoci a considerare nel 2009 come un “grande” problema la partecipazione di Berlusconi alle stanche celebrazioni del 25 aprile quale data di presunto sparti acque tra epoche profondamente diverse se non opposte.
Ma che senso ha ancora strumentalizzare alla lotta politica un tema così delicato? Magari per dimostrare che Berlusconi ha la coda di paglia quasi fosse un piccolo Mussolini? Ma ce lo immaginiamo per assurdo, se non abbiamo il minimo senso del ridicolo, il redivivo Cavaliere che dopo un quindicennio di successi politici, voglia berlusconizzare l’Europa così come voleva fare il Mussolini del decennale della “rivoluzione fascista” quando si diceva sicuro che oltre l’Italia l’intera Europa sarebbe diventata fascista o fascistizzata nel giro dei dieci anni a venire? Eppure sembra irresistibile la voglia di creare collegamenti e paragoni che di storico hanno ben poco.
Il berlusconismo o quello che viene definito come tale sfugge, nonostante gli sforzi e gli anatemi della sinistra, ad una definizione precisa che lo ricolleghi al nostro passato, al massimo può essere ricondotto ad alcune costanti delle nostre pulsioni collettive che nelle sue espressioni di punta già facevano storcere il naso ai vecchi azionisti o addirittura agli ex fascisti delusi da come si comportarono gli italiani dopo l’8 settembre del 1943. Ancora non sappiamo come si evolverà la fase storica che stiamo vivendo, è un cantiere aperto che può riservare mille sorprese (e confusioni), ma sicuramente solleverà l’interesse dei posteri come una svolta- imprevista come sempre- di costume nazionale se non di cultura. Anche questo periodo però si inserisce a pieno titolo- è un fatto, non una valutazione - nella nostra continuità nazionale come espressione dei tempi che corrono.
Ma prima di analizzare un fenomeno ancora in corso è bene fare i conti con i tanti conformismi che hanno caratterizzato e condizionato il pensare collettivo degli ultimi da sessanta anni e più, a partire proprio dal significato del 25 aprile e della lotta di Liberazione. Non saremmo ancora qui a discutere sulle date se avessimo avuto in passato qualche dose di coraggio analitico in più. Se si fosse ammesso in tempo che è esistito un periodo di consenso popolare al regime mussoliniano (le analisi di Renzo De Felice in proposito sono ora universalmente accettate), se si fosse definita in tempo la Resistenza come guerra civile (secondo le ammissioni ritardate dello storico comunista Claudio Pavone) se i Giampaolo Pansa si fossero svegliati prima a denunciare gli eccidi perpetrati dai partigiani comunisti a guerra finita, passando per le foibe del Maresciallo Tito, anche il nostro comune lessico politico sarebbe cambiato, per non dire il nostro stesso immaginario collettivo.
Se tutto ciò fosse avvenuto non si sarebbe parlato con tanta leggerezza né delle fogne in cui ricacciare gli sconfitti, né della Resistenza tradita ( una guerra civile può essere mai tradita?) da riscattare con la lotta armata degli anni ’70 in una lunga stagione di terrorismo che non ha risparmiato né i democristiani e né i comunisti d’apparato.
Sono argomenti scomodi al “politically correct”, che non varrebbe neppure la pena di riprendere per non farne appunto oggetto di strumentalizzazione politica. Ma se poi la riflessione si allarga ai contenuti ed agli schieramenti di più di mezzo secolo fa, gli argomenti da dibattere sarebbero tanti per le infinite commistioni, interconnessioni, confusioni che hanno contrassegnato la nostra storia recente proprio con riguardo al significato del 25 aprile come resa dei conti con il regime fascista. Abbiamo avuto, per cominciare, una Chiesa che dopo venti anni di complicità con il “regime” è divenuta essa stessa potere politico indispensabile del dopo guerra, unico bastione anticomunista.
Ci ha governato una classe politica cattolica che ha espresso tra i suoi maggiori esponenti le figure di Aldo Moro e Amintore Fanfani, due personaggi – soprattutto quest’ultimo -che avevano manifestato precise assonanze con il regime corporativo. Né si può dimenticare che lo stesso Palmiro Togliatti, il primo capo del PCI, aveva accettato di inserire nella Costituzione i Patti Lateranensi, salvo poi prendersela con la DC rappresentata come una reincarnazione del fascismo reazionario.
Si inserisce nella nostra storia lo stesso successo popolare dei comunisti italiani nel dopo guerra che non sarebbe stato così grande, a scapito degli stessi socialisti, se Togliatti non avesse ereditato l’humus adatto e non si fosse valso nel dopo guerra di stati d’animo estremisti a lungo sedimentati grazie alla propaganda fascista su scorciatoie rivoluzionarie possibili grazie alla guida di un uomo o di un partito che governa e pensa per gli altri, in questo caso in nome e per conto della classe operaia.
Luca Ricolfi, su un altro versante, in una recente riflessione che ha acceso un interessante dibattito con altri analisti, ha imputato i ritardi italiani, le sue incrostazioni burocratiche diffuse, gli egoismi delle categorie che si auto proteggono, ai lasciti delle tre culture dominanti in Italia, quella fascista, quella cattolica e quella comunista.
E’ un’interpretazione plausibile che riguarda alcuni aspetti della nostra ultima storia e sembra che neanche il “berlusconismo” possa discostarsi più di tanto dal passato per far avanzare una cultura e una prassi nuovi.
Ma proprio perché quella di Ricolfi è un’analisi di “genetica culturale” che coglie alcuni tratti di verità, risulta ancora più assurdo e fuori tempo che Franceschini ed altri richiamino emotivamente le divisioni del passato, costringendoci a considerare nel 2009 come un “grande” problema la partecipazione di Berlusconi alle stanche celebrazioni del 25 aprile quale data di presunto sparti acque tra epoche profondamente diverse se non opposte.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.