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Ripartire dall’impresa, ecco l’equazione giusta

I rimedi blandi non pagano

Per affrontare la duplice emergenza in cui versa il sistema-Paese bisogna iniziare dalle aziende

di Enrico Cisnetto - 01 dicembre 2008

L’Italia è una Repubblica fondata sulla famiglia. Questo verrebbe da dire leggendo il decreto legge licenziato ieri dal Consiglio dei Ministri. Per la stragrande maggioranza, infatti, le misure varate dal Governo riguardano i nuclei familiari: il bonus esteso sia nella platea di potenziali percettori sia nella cifra erogata, il congelamento delle tariffe, oltre alla famosa “social card” presentata nei giorni scorsi. Per le imprese, invece, il piatto è più magro ed è composto soprattutto da una misura temporanea – il taglio per il 2008 di tre punti all’acconto Ires e Irpef di fine novembre – mentre è stata pesantemente depotenziata l’idea (peraltro positiva) della nuova tempistica dell’Iva.

Così, da qualunque parte lo si prenda, il pacchetto anti-recessione si dimostra inadeguato. E non perché si tratti di misure deleterie e non apprezzabili in un momento come questo. Ma perchè alle base di questi provvedimenti c’è un errore di metodo e di sostanza. Di metodo, perché appunto vengono privilegiati i consumi (presunti) rispetto allo sviluppo industriale. Di sostanza, perché si tratta dell’ennesimo tentativo di immettere benzina in un motore ormai grippato.

Ma andiamo con ordine. Gli aiuti alle famiglie poggiano su un assunto per nulla scontato, e cioè che a un maggior reddito disponibile corrispondano più consumi e dunque più attività economica. Purtroppo, si tratta di un’equazione infondata: in tutti questi anni si è visto che i provvedimenti di questo tipo hanno avuto scarsissimi effetti sulla domanda interna. Perché? Prima di tutto sono stati sempre compensati da collaterali incrementi della pressione fiscale, in particolare dei tributi locali (basti pensare che nei primi otto mesi del 2008 il gettito legato all"addizionale comunale Irpef è aumentato del 26,5%, mentre il gettito dell’addizionale regionale ha registrato un +18%).

La fiscalità locale è esplosa in particolare sulle fasce di cittadini che più hanno risentito in questi anni del crollo del loro potere di acquisto, ovvero quei dipendenti e pensionati che costituiscono la classe media falcidiata. Inoltre, l’equazione “più aiuti alle famiglie = più consumi” non regge perché gli sgravi fiscali concessi in questi anni hanno dimostrato di aver avuto un effetto che potremmo chiamare di “demoltiplicatore keynesiano”: sono costati cioè molto allo Stato, e hanno avuto ben poco impatto sulle entrate fiscali e sul pil. In poche parole, un fiume di denaro che è sgorgato dalla finanza pubblica si è trasformato in mille rivoli di risparmi che le famiglie hanno usato per rinsaldare la loro capacità di risparmio e per tentare di ristrutturare – almeno in parte – il loro potere di acquisto. Lo dimostrano le rilevazioni del Sole-24Ore, che hanno dimostrato come gli ultimi tre interventi di riduzione fiscale disposti dal governo Berlusconi (2001-2006) e dal governo Prodi (1996-1998), hanno avuto ben miseri effetti: con la prima detassazione decisa dal governo Berlusconi II (2003) lo Stato spese 5,5 miliardi di euro per introdurre novità come la famosa “no tax area”.

Il risultato in termini di consumi fu una spesa media mensile per famiglia salita dell’1%. Nel 2005 scattò la seconda e ultima tranche della riforma fiscale del governo Berlusconi, per un totale di 6,5 miliardi concentrati questa volta sui redditi medio alti. La spesa mensile per famiglia salì solo dello 0,7%. Infine nel 2007 con la prima Finanziaria del Governo Prodi e la rimodulazione di scaglioni e detrazioni, un’operazione da 1,4 miliardi portò un aumento dei consumi dello 0,8%. Una scommessa molto rischiosa, dunque. E per due ulteriori ordini di motivi: primo, che i consumi sono più correlati a variabili psicologiche che non al reale andamento dei redditi.

Così anche l`incertezza dello scenario 2009, con la recessione ormai pienamente conclamata e una capacità di reazione della Politica a dir poco debole, non incoraggerà certo a spendere. Anzi, si avrà semmai quell’effetto-sostituzione che spinge semmai a risparmiare e a rinviare soprattutto le spese non ritenute essenziali. Secondo, si tratta di un errore “diagnostico”: l’Italia, infatti, è un Paese di “poveri ricchi”, con redditi inferiori a qualunque media europea ma con una ricchezza (per quattro quinti concentrata in immobili), al netto di un indebitamento delle famiglie ancora basso nonostante i recenti incrementi, molto superiore ai nostri competitor internazionali. Non tenere conto di questo combinato disposto reddito-patrimonio rischia, in questa fase, di generare interventi “spot” inutili oltre che squilibrati anche dal punto di vista sociale (chi si prenderà la famosa social card?). In definitiva, è evidente che se da una parte bisogna cominciare, è quella delle imprese, non delle famiglie.

Soprattutto perché solo in questo modo si può affrontare insieme la duplice emergenza in cui versa il sistema-Paese, quella di breve (dovuta alla crisi finanziaria internazionale) e quella di medio periodo (dovuta al declino strutturale di cui soffriamo da oltre un quindicennio). E se si vuole affrontare la recessione indotta dalla crisi planetaria insieme con la nostra “crescita zero” degli ultimi anni, bisogna dunque puntare su un reale “stimulus”, un grande piano espansivo come quello alla base della nuova “Obanomics” americana, che promette ben altri ritorni in termini di consumi e di aumento del pil. Si calcola, infatti, che ogni dollaro investito in spesa pubblica – per investimenti, beninteso, e soprattutto infrastrutturali – si trasformerà in 1,5 dollari di aumento del pil pro-capite, il quale a sua volta si tradurrà in un aumento di 40 centesimi di dollaro di entrate fiscali. Questa è dunque l’equazione giusta: ripartire dall’impresa. Il resto, pur nella bontà delle intenzioni, rischia di assomigliare più a un blando rimedio omeopatico, più che a quell’intervento a cuore aperto di cui il Paese ha disperatamente bisogno.

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