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E anche la politica scopre il declino italiano

I paradossi elettorali

Cari “signori” la crisi strutturale è italiana e non mondiale

di Enrico Cisnetto - 21 marzo 2008

Ci sono alcune conseguenze “italiane” della cattiva congiuntura innescata dalla crisi finanziaria mondiale in atto, tutte a dir poco paradossali. La prima, la più evidente e pericolosa, è che stiamo clamorosamente confondendo la congiuntura internazionale con il declino nazionale, riconducendo quest’ultimo all’attuale scenario globale, fatto di bolla immobiliare che scoppia, di mancanza di liquidità nel circuito bancario, di Borse che crollano, di materie prime alle stelle e di un mercato dei cambi bugiardo circa i valori reali delle economie sottostanti le monete.

Il pericolo è patente: siccome sulle macro-variabili non siamo in grado di intervenire, allora non ci rimane che attendere che passi la “nottata”, alla faccia dei nostri ritardi strutturali. Infatti, in questi ultimi giorni siamo passati – paradossalmente, appunto – dallo stato di agnosticismo che fin qui aveva contraddistinto il sistema politico nostrano (declino?, ma quale declino!) all’allarme sulle condizioni dell’economia, che ha persino spinto un ottimista ad oltranza come Berlusconi a usare toni di prudenza circa le aspettative che potremmo nutrire da un suo eventuale governo.

Appunto, della serie “che ci posso fare?”, non “ecco che decisioni occorre prendere vista la situazione”. Naturalmente, più sofisticato di lui è Tremonti, che si è già abilmente costruito l’alibi della sua impotenza prossima ventura, scaricando anticipatamente sulla “perfida globalizzazione” la responsabilità di quanto accadrà. Un’analisi – sbagliata, ma un’analisi – a fronte della quale Veltroni oppone il vuoto più assoluto, riempito solo dal (sacrosanto) ricordo che negli anni cruciali del 2001-2006 al governo c’era il centro-destra, ma dimenticando che nei cinque precedenti e nei due successivi c’era lui (o chi per lui).

Peccato che le cose stiano diversamente. Prima di tutto, bisogna dirci con chiarezza che il declino è italiano, in parte europeo, ma non mondiale, visto che negli ultimi sette anni il pil planetario è cresciuto in media di cinque punti l’anno, come mai prima nella storia. Dunque, una classe politica seria dovrebbe occuparsi delle specificità italiane, dicendo come intende porre rimedio ad esse.

Certo, facendo riferimento anche allo scenario globale – dalle cui difficoltà non possiamo essere esenti, mentre siamo in grado, come è stato fin qui, di auto-escluderci dai suoi benefici effetti – ma sapendo che su alcune variabili (politica industriale, welfare) conserviamo piena giurisdizione. Ma come si fa a confondere una crisi strutturale come la nostra con una flessione congiunturale internazionale, se negli ultimi 15 anni il pil italiano ha accumulato 12 punti percentuali di differenza con la media europea e ben 35 con gli Usa?

In seconda analisi, sarebbe opportuno evitare i luoghi comuni “catastrofali” su quanto sta accadendo negli Stati Uniti e di conseguenza nel mondo, guarda caso usati con più frequenza e veemenza – ecco un altro paradosso – da coloro che fin qui hanno menato fendenti (ahime) sugli italici “declinisti”. No, non siamo di fronte al fallimento della globalizzazione – fin qui il più straordinario fenomeno di diffusione di ricchezza, non di creazione di povertà – e neppure siamo al cospetto di una crisi mondiale. Al più, forse, potrà accadere che per qualche trimestre gli Usa vadano in recessione, come è accaduto nel 2001 dopo lo scoppio della bolla borsistica della new economy (ma prima dell’11 settembre) senza che quel momentaneo tirare il fiato interrompesse la corsa di lungo termine della locomotiva mondiale.

Da questo punto di vista – e siamo al penultimo paradosso – mi tocca dare ragione al Giavazzi “ultima versione”, quella che ieri sul Corriere andava sotto il titolo di “capitalismo responsabile”, in cui il campione de “il liberismo è di sinistra” dice, seppure con tre mesi di ritardo, che “la Banca d’Inghilterra ha fatto bene a salvare Northern, soltanto che l’ha fatto troppo tardi”, e che la Federal Reserve ha fatto bene, anzi meglio “a salvare Bear Stearns”.

A parte ogni commento sul fatto che in mille altri casi aveva apoditticamente affermato che “chi non è capace di stare sul mercato deve fallire”, Giavazzi ha ragione nel riportare la crisi finanziaria alle sue giuste dimensioni. Ma se, come ha finalmente capito anche lui – a quando la conversione degli altri “liberisti scolastici”? da questo punto di vista, ma solo da questo, le tesi di Tremonti sono istruttive – il “capitalismo responsabile” presuppone l’intervento, dettato da sano pragmatismo, dello Stato, come mai sull’Alitalia siamo nel caos più assoluto?

Eccola l’ultima paradossale conseguenza dell’improvvisa scoperta della crisi economica da parte della nostra classe politica, si chiama fallimento di Alitalia. Ma come, prima assistete – parlo al plurale perchè la cosa riguarda entrambi gli schieramenti – alla ristrutturazione di tutte le compagnie aeree europee senza muovere un dito, salvo quello necessario per approvare continue ricapitalizzazioni che hanno bruciato in dieci anni 3 miliardi di euro, mentre nel frattempo fate partire un secondo hub (Malpensa) senza averne ben capito la funzione, quindi mettete sù un’asta demenziale in cui si confonde la privatizzazione con un salvataggio, consentite che l’unica proposta italiana (AirOne) vada a farsi fottere, e ora picchiate la testa contro l’arroganza francese e farneticate di cordate tricolori? Mah, meno male che ci sono le elezioni...

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.