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Bisogna ricostruire l’<i>establishment</i> italiano

I “furbetti” servano da lezione

Possibile che nessuno si sia accorto di cosa accadeva all’interno di Bpi e Unipol?

di Alessandra Servidori - 10 gennaio 2006

Palazzo Koch ha un nuovo inquilino: Mario Draghi è il Governatore della Banca d’Italia. Uomo di prestigio internazionale con la caratteristica essenziale di aver lavorato bene sia con il governo di centrodestra che con quello di schieramento opposto, è in grado di garantire un rapido recupero della credibilità interna e internazionale della Banca D’Italia, facendo riacquistare l’autorevolezza che l’istituto ha avuto da sempre. La cosa fondamentale, ora, è che Draghi possa lavorare in sufficiente autonomia senza sentirsi tirare la giacchetta da Romano Prodi che, scompostamente, si è precipitato a dichiarare che “E’ uno dei suoi”. C’è bisogno di ordine, buonsenso, equilibrio in una situazione di grande confusione e malaffare.

Poche ore prima un altro tassello del domino dei “furbetti del quartierino” è caduto. Il vertice dell’Unipol è azzerato: Giovanni Consorte ed Ivano Sacchetti rassegnano le dimissioni. Solo alcuni mesi or sono i due manager della cooperazione rossa sembravano pronti a dare l’assalto al cielo; adesso, a seguire le puntate dei resoconti delle intercettazioni telefoniche, che riempiono le pagine dei principali quotidiani, c’è da aspettarsi che, tra poco, ai protagonisti dell’intreccio Unipol-Bpi verrà affibbiato l’epiteto della “banda dei quattro”, come facevano un tempo - in Cina prima che venissero scoperti i vantaggi dell’economia di mercato - le famigerate Guardie Rosse nei confronti di alcuni esponenti del regime caduti in disgrazia. I fatti sono indubbiamente gravissimi; alla magistratura va dato il merito di aver messo le mani in un groviglio di vipere e di aver contribuito, così, a sbloccare una buona legge sulla tutela del risparmio (è questo il giudizio di un esperto al di sopra di ogni sospetto come Mario Monti), che giaceva in Parlamento da anni e che già era stata condannata a cadere insieme alla legislatura.

Eppure, quanti hanno vissuto – da osservatori – l’esperienza di Tangentopoli non possono non nutrire, se sono onesti, dubbi e perplessità. Sono troppe le rappresentazioni semplicistiche di una vicenda che necessariamente si annuncia più complessa. Prendiamo il caso di Gianpiero Fiorani, il Belfagor ora ospite di San Vittore ed accusato di aver tessuto una rete di malaffare coinvolgendo addirittura il Governatore della Banca d’Italia e associando, in una sorta di Patto di San Genesio degli anni 2000, i più bei nomi della c.d. finanza rossa. Come ha potuto un signore venuto dal nulla impadronirsi di una piccola banca di provincia e farne un trampolino per salire, da protagonista, sulla ribalta nazionale, inducendo per giunta “in errore” Antonio Fazio (e non solo)? E come gli è stato possibile fare la cresta, per anni, ai conti correnti dei risparmiatori senza che nessuno (collegio dei sindaci, autorità di vigilanza, associazioni dei consumatori, sindacati dei dipendenti, ecc.) se ne accorgesse? Il caso della Bpi, purtroppo, ne evoca un altro altrettanto clamoroso, capitato a Collecchio, non molto lontano da Lodi, sempre nel cuore di quella pianura padana che resta una delle aree più ricche e sviluppate del mondo, ma che non ha più un primato etico da vantare. Per ora, le responsabilità del duo “Castore & Polluce” di Unipol non sono gravi come quelle del loro amico e benefattore lombardo. Ma se non è ancora provato che Consorte e Sacchetti abbiano violato il codice penale, sembra certo che essi siano venuti meno non solo ai principi etici dei cooperatori, ma anche alle fondamentali regole deontologiche alle quali dei manager devono attenersi. Pure in questo caso viene spontanea una domanda: è mai possibile che nessuno sapesse o immaginasse che rapporti di affari così a rischio e comportamenti tanto spregiudicati fossero pane quotidiano per i vertici dell’azienda-gioiello del movimento cooperativo? E’ bene, allora, interrogarsi sulla mutazione genetica intervenuta nel mondo della cooperazione rossa, sulla perdita di potere e di influenza della Lega e delle associazioni di categoria nei confronti di un pool di aziende potenti, finanziariamente solide, finite in mano a manager che rispondono solo a se stessi, essendo il rapporto coi soci cooperatori poco più che una finzione giuridica e quello col partito una cinghia di trasmissione che ha invertito il suo giro. Dopo l’arresto di Fiorani, le dimissioni di Fazio, anche Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti hanno compiuto un passo indietro. E’ doveroso chiarire tutti gli aspetti inquietanti che sono emersi. Fermo restando che esiste una differenza fondamentale tra ipotesi di reato e condotte discutibili. Purtroppo, questo particolare cruciale non è sempre stato tenuto in considerazione durante le campagne di stampa che hanno cercato in tutti i modi di demolire, sul piano morale, la personalità dei manager e dei civil servant presi di mira, nonché di screditare i loro referenti politici.

Per risalire la china, va nella direzione giusta il fatto che la Banca d’Italia riformata abbia nuovamente un Governatore all’altezza di un ruolo tanto significativo. Infine, a certi “Soloni del giorno dopo” sarebbe opportuno ricordare la trave che hanno nelle loro pupille. Se oggi gli istituti di credito hanno commissariato le imprese, se in mancanza del credito generosamente profuso dalle banche i più bei nomi del capitalismo nostrano finirebbero coi libri contabili in tribunale, se i “furbetti del quartierino” hanno potuto pensare che fosse venuto il loro momento, tutto ciò è successo anche perché agli eletti dell’establishment sono rimasti solo gli occhi per piangere. Proprio in questi giorni, nel più grande gruppo italiano – quello stesso che negli anni settanta non esitò ad aprire le porte del consiglio di amministrazione ai rappresentanti di un paese-canaglia il cui tiranno faceva mettere le bombe sugli aerei - si torna di nuovo a discutere di esuberi da iscrivere nel grande libro paga della collettività.

Pubblicato sull’Avanti del 10 gennaio 2006

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