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Lavoriamo per costruire la Terza Repubblica

I fallimenti della Seconda Repubblica

Abbiamo il dovere di indicare le soluzioni, di suggerire le scelte strategiche

di Enrico Cisnetto - 30 novembre 2009

All’amico Luca Ricolfi mi accomuna sia una medesima visione, che definirei “realista”, del nostro Paese – in particolare per quanto attiene, da un lato, al suo declino, economico ma non solo, e dall’altro al fallimento del bipolarismo all’italiana e dunque della Seconda Repubblica – sia il metodo “pragmatico” nell’approccio alla soluzione dei problemi.

Per questo mi permetto di dissentire da lui quando sostiene (La Stampa, 23 novembre 2009) che se in questa fase si è scelto di non scegliere alla fine la colpa è degli italiani, o meglio di quella “maggioranza” conservatrice e corporativa che blocca da sempre ogni riforma strutturale. Ora che ci sia una parte cospicua del Paese che non ne vuole sapere di regole, merito e concorrenza – collocata sì nel “pubblico” e nel Centro-Sud, ma anche in quella tanto declamata “borghesia del fare” del Nord, nel popolo delle partite Iva e negli imprenditori e professionisti “invisibili” dei cui lamenti ci parla il Corriere della Sera, tutti sempre pronti a gridare “Roma ladrona” salvo scoprire che Veneto e Lombardia sono al secondo e terzo posto dopo la Sicilia nella classifica delle truffe allo Stato – è tristemente vero. Ma questo non significa che un governo che ha ricevuto un così ampio mandato dagli elettori da avere, sia nel 2001 che nel 2008, una schiacciante maggioranza parlamentare come quelli presieduti da Berlusconi, non abbia la possibilità di convincere il Paese della necessità delle riforme cosiddette “impopolari”.

E se questo non succede, significa non che il Paese è così “bacato” da impedirle, ma che il sistema politico non funziona e che, in un rapporto di causa ed effetto reciproco, che la sua classe dirigente non è all’altezza del compito. Credo che Ricolfi convenga con me sul fatto che nella diatriba Brunetta-Scajola-Tremonti scatenatasi intorno ai concetti di “rigore nei conti pubblici” e di “spesa per lo sviluppo”, ciascuno abbia ragione nell’evocare l’uno o l’altro dei due corni del dilemma – perché è tanto vero che si deve evitare il deficit spending quanto che occorrono massici investimenti per tirare fuori dalle secche il nostro sistema economico – ma anche che tutti abbiano il torto di non evocare le riforme strutturali come strumento per poter trasformare quote significative di spesa pubblica corrente in spesa produttiva.

Parlo di previdenza, sanità, assetti istituzionali (abolizione delle province, riduzione del numero dei comuni e delle regioni, ecc.) e dello stesso debito pubblico, su cui sono immaginabili interventi una-tantum, oltre che dei mille rivoli di spesa improduttiva quando non di puro spreco. Se poi, come nell’ultima parte dell’anno scorso e quest’anno, di fronte ad una delle più terribili crisi economiche che il mondo sia stato costretto ad affrontare, si sostiene che in tempi di recessione non bisogna fare nulla (quella che Ricolfi chiama suggestivamente la tecnica del “fingersi morti”) perché la coesione sociale viene prima di ogni altra cosa, perdendo così la chance di far leva sull’emotività suscitata dalla crisi stessa; se si esclude senza mezzi termini ogni intervento sull’età pensionabile persino quando un sindacato responsabile come la Cisl dichiara invece la sua disponibilità a parlarne; se s’immagina di spendere solo per la cassa integrazione e non per sostenere la domanda (il piano Scajola per incentivare elettrodomestici, cucine, macchine utensili, ecc.) e l’offerta (la banda larga), beh allora è difficile dire che sono gli italiani corporativi a non volere che nulla cambi.

Capisco, invece, il ragionamento per così dire “minimalista” di Ricolfi quando dice: siccome è ormai evidente che non si riesce a combinare nulla di buono, allora tanto vale che prevalga la linea di contenimento voluta dal Tesoro. Capisco, ma non mi adeguo.

Per il semplice motivo che così facendo – lo ammette lo stesso editorialista della Stampa – il declino aumenta e il Paese affonda. Dunque, caro Ricolfi, più che guardare al male minore, noi abbiamo il dovere di indicare le soluzioni, di suggerire le scelte strategiche. La prima delle quali non può che riguardare il sistema politico. Vedo con piacere che anche gli editorialisti del Corriere della Sera – prima Sartori e poi, seppure con qualche lacrima di rimpianto, Panebianco – sono arrivati alla conclusione che il bipolarismo nostrano ha fallito e che prima si chiude l’esperienza della Seconda Repubblica meglio è, cioè alle tesi che io ho sostenuto prima in termini di pronostico (1992-1996), ahimè azzeccato, e poi in termini di progressiva presa d’atto della realtà (1998-2009). Dunque dedichiamoci a progettare e contribuiamo a realizzare la Terza Repubblica.

Pubblicato da Il Foglio di sabato 28 nomembre 2009

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.