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Accordo sui 835 contratti

I dubbi sul modello Expo

Per tempi e modalità non rappresenta l’Italia che si elasticizza e dinamizza, ma quel che resta di un Paese pietrificato e immobile

di Davide Giacalone - 25 luglio 2013

Siamo sicuri che il “modello Expo” sia un buon esempio? Gli strilli dei giornali sono tutti uguali: per l’appuntamento del 2015 c’è un accordo fra ente, imprese e sindacati, per contratti di lavoro flessibili. Ottima cosa, evviva. Che sia d’esempio, ammonisce il presidente del Consiglio. Ma se si entra nel merito le cose appaiono meno festose.

1. la trattativa non è ancora conclusa e si aprì con un protocollo, firmato nel febbraio del 2012; 2. l’Expo è per sua natura temporaneo, sicché risulta paradossale che si consideri innovativo il non assumere a tempo indeterminato; 3. l’elasticità conquistata non è poi tale, se in partenza si sa che saranno 340 contratti di apprendistato, 300 da liste mobilità e disoccupazione e 195 stage; 4. nessuno pensava che toccasse all’Expo far fronte alla perdita di posti di lavoro, ma stiamo pur sempre parlando di 835 contratti, a fronte di 250.000 posti persi nel 2013; 5. tali “conquiste” hanno una contropartita al sindacato: niente modifiche legislative. Insomma, per tempi e modalità questo non è il modello dell’Italia che si elasticizza e dinamizza, ma quel che resta di un’Italia pietrificata e immobile. Si dirà: meglio poco che niente. Vero, ma se il poco vien festeggiato come fosse un annuncio di avvenire è doveroso sottolineare che quell’avvenire sarà fallimentare, se con queste caratteristiche.

Oltre tutto trovo singolare che un governo e un ente governativo festeggino come conquista la deroga dalle norme esistenti. Se non funzionano, e non funzionano, vanno cambiate. E se non funzionano a Milano non è che funzionino a Cagliari o a Bari. Non esistono leggi che creano occupazione produttiva, al più possono promuovere assunzioni nella pubblica amministrazione, che poi diventano debito. Esistono, però, leggi che deprimono la produttività, quindi bruciano ricchezza e posti di lavoro. A tale novero di leggi appartiene la rigidità con cui si regola il mondo del lavoro. Se per far fronte a un impegno internazionale, la cui scadenza è imminente, si deroga a quelle leggi, dopo avere trattato per un anno e mezzo, si consegna una fotografia orrida del Paese. L’Expo si deve fare per forza a Milano e per forza nel 2015. Ma come si sarebbe regolato un investitore privato, italiano o straniero che sia? Con ogni probabilità avrebbe spostato altrove la nascente attività produttiva. Se non si vuole che questa sia la sorte dell’Italia si deve fare ben altro che applaudire le camomille. Ci vuole la nitroglicerina.

Lo stesso accordo, con spirito opposto, prevede che le imprese che lavoreranno con Expo dovranno scupolosamente rispettare le norme penali, del lavoro e della sicurezza. Domanda: perché, c’era la possibilità del contrario? Se un obbligo è previsto dalla legge, che bisogno c’è di metterlo in accordi e contratti privati? Intendiamoci: sono favorevole alla contrattualizzazione di certi principi, facendo divenire civilistico quel che oggi è penale (non tutto, naturalmente). Ma ciò deve avvenire in alternativa al vincolo di legge, non in aggiunta. Vabbe’ che siamo a Milano, ma è un eccessivo omaggio al Manzoni il ricordare che, oggi come allora, le leggi son solo grida inutili, sicché per farle divenire realtà c’è bisogno di altri sostegni.

Infine: l’accordo Expo è stato firmato da Cgil, Cisl e Uil, ovvero i tre sindacati confederali cui è iscritta una minoranza di lavoratori, mentre la maggioranza degli iscritti sono pensionati. Ebbene, Fiat sta passando i guai per avere firmato un accordo con alcuni sindacati, e con il sostegno referendario della maggioranza schiacciante dei lavoratori, ma non con la Fiom. Che ha fatto ricorso e ha vinto fin davanti alla Corte costituzionale. Onore ai loro legali, ma resta lo sgradevole sospetto che l’unità politica dei sindacati, e la loro copertura, sia l’unico modo per riuscire a lavorare. Il che non somiglia per nulla a un mercato aperto e funzionante, ma a un corporativismo politicizzato e asfissiante. Non solo per la libertà d’impresa, ma anche per quella di lavoro.

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